Letteratura

Ecco il dittico della colpa dipinto da McCarthy

Due romanzi che s'intrecciano e due personaggi, Bobby e Alicia, legati dal tormento dell'incesto

Ecco il dittico della colpa dipinto da McCarthy

Una bellezza nell'oscurità. That beauty into the darkness. Eccolo, il testamento. Scabro come un anello di ferro. L'ultima parola.

Trent'anni fa, al giornalista del New York Times che lo aveva rintracciato a Mesilla, Nuovo Messico, Cormac McCarthy disse che «non esiste vita senza spargimento di sangue», che «l'idea che la nostra specie possa essere in qualche modo migliorata e tutti possano vivere in armonia, mi pare pericolosa». Aveva già scelto di abitare a El Paso, agli scrittori preferiva i serpenti a sonagli del deserto del Mojave, in California, «non c'è nulla che non mi appassioni: la scrittura non è la cosa più importante», continuava a ripetere. Il giornalista, Richard B. Woodward, precisò che McCarthy, «un conservatore radicale», «il più grande sconosciuto romanziere degli Stati Uniti», con i suoi libri non aveva mai venduto più di cinquemila copie. Da quell'anno, il 1992, cambiò tutto. McCarthy andava per i sessanta, gli piaceva raccontare di quando un grizzly, in Alaska, aveva cercato di farlo suo; con Cavalli selvaggi conquistò il National Book Awards, che lo fece conoscere nel resto del mondo occidentale. In Italia, come si sa, McCarthy è pubblicato da Einaudi; fu l'editore Guida, però, nel 1993, con lungimiranza, a tradurlo per la prima volta, per mano di Riccardo Duranti, sempiterna lode ai piccoli, audaci editori.

Chi ha contezza del mondo virile, patriarcale di McCarthy, sa che proprio in Cavalli selvaggi appare uno dei suoi rari personaggi femminili. Alejandra è la magnetica, audace ragazza desiderata da John Grady Cole. «Era così bianca nell'oscurità che sembrava ardere. Come un fuoco fatuo in una foresta buia. Che ardeva freddo. Ardeva freddo come la luna». Naturalmente, l'amore non procurerà altro che sangue, deserto, azioni inutili e irredente.

Trent'anni dopo, sulla scia dei novanta, Cormac McCarthy crea un personaggio femminile dolente, micidiale, Alicia Western - matematica dotata di inquietante precocità, bellissima, reclusa in manicomio - e ci spiega che la vita, astrusa vicenda di efferatezze insensate, è tutta qui: una bellezza nell'oscurità. La vita non ha altro onore se non onorare quella scheggia di bellezza che irradia la tenebra, giustifica la nostra gloria di latta.

Tornato al romanzo dopo sedici anni - The Road esce nel 2006 - Cormac McCarthy spiazza i luoghi comuni e i venerabili custodi del galateo letterario odierno. La vicenda dei fratelli Western è narrata in un libro a dittico: The Passenger, che sviscera, secondo i crismi del romanzo canonico, la storia di Bobby - bravo, bello, esperto in indagini subacquee, appassionato di macchine sportive - e Stella Maris, lungo dialogo tra Alicia e il medico che la ha in cura. La stessa storia è narrata da due sguardi diversi, in toni letterari opposti. L'ossessione per il disastro atomico si mescola a una trama ibrida, che assembla la mafia, l'assassinio di JFK, Kurt Gödel, il matematico Alexander Grothendieck, i Principia di Bertrand Russell. Trent'anni fa, al giornalista newyorchese McCarthy disse che gli piaceva leggere Wittgenstein e ascoltare la musica country, che viaggiava sempre con una torcia: per scorgere quell'infimo grammo di bellezza nell'oscurità.

Il cuore di The Passenger è svelato una decina di pagine prima della fine. Bobby, ormai scalzato dal destino, è a Ibiza, scrive una lettera alla sorella. «Avrebbe voluto scriverle ciò che aveva nel cuore; infine, butto giù qualche parola sulla sua vita nell'isola. Eccetto l'ultima frase. Mi manchi in modo insopportabile. Poi vergò il suo nome». L'incesto. L'amore colpevole tra fratelli. Come gli antichi dèi che si univano tra loro per decretare un longanime lignaggio, una sequela nel sangue. In Cormac McCarthy i rapporti sono sempre singolari e impossibili: gli uomini restano soli, in un mondo ostile, entro spazi sconfinati ma infine claustrofobici - il deserto in Meridiano di sangue; il Messico sanguinario e inospitale nella «Trilogia della frontiera»; la terra postatomica de La strada; l'ospedale psichiatrico in Stella Maris. Il riferimento diretto di The Passenger, tuttavia, è Outer Dark, romanzo di McCarthy del 1968 (tradotto nel 1997 da Raul Montanari per Einaudi come Il buio fuori). In quel caso, l'unione incestuosa tra Culla e Rinthy, fratelli del sottosuolo, smangiati dalla sorte, marginali, si traduce in un bambino, figlio dello scandalo («Il bambino urlava la sua maledizione al mondo tenebroso e maleodorante in cui era nato, piangendo e piangendo, mentre l'uomo giaceva a terra farfugliando con le mascelle paralizzate, e con le mani respingeva la notte come un folle paracleto assediato dalle suppliche dell'intero limbo»). McCarthy scrive quel libro, il suo secondo, proprio a Ibiza, grazie a una borsa di studio della Rockefeller Foundation. Ha mollato la prima moglie, Lee Holleman, per mettersi con Anne DeLisle: l'ha conosciuta su una nave, faceva la cantante. Nelle fotografie sembrano felici: Cormac ha sempre quella faccia serafica, sembra fissare un dio cannibale, con la faccia da cane, oltre l'orizzonte. Lei dirà che la costringeva a una vita di stenti, da santi in mutande, in una stalla, fuori Knoxville. «Vivevamo in totale povertà... ci facevamo il bagno nel lago, ogni tanto qualcuno chiamava, gli offriva 2mila dollari per parlare dei suoi libri in una qualche università. Lui rispondeva che tutto quello che aveva da dire era lì, sulla pagina. Dunque: avremmo mangiato fagioli per un'altra settimana».

The Passenger non è il romanzo più bello di Cormac McCarthy; Stella Maris è uno dei suoi esperimenti più arditi, un dialogo platonico nelle gore della follia. Ma questo, ormai, è ininfluente. Da tempo, ormai, McCarthy trascende la letteratura: ne è il reprobo, il cencioso profeta, «il ragazzo che scava nel fango per conto di Dio, e arranca farfugliando, lungo la cruda cimosa di una desolazione senza nome, dove ribolle il freddo oceano siderale... e sbanda tra le tegole dell'universo, le spalle strette rivolte ai venti stellari, al risucchio di una luna aliena, scura come pietre». Come Goethe, Melville e Hermann Broch, McCarthy piega il romanzo come una verifica, lo brandisce per scopi conoscitivi, per avviarsi verso una qualche forma di sapienza. «Il mondo non ha dato vita ad alcuna creatura che non sappia distruggere», dice Alicia; il Manusmrti, antico trattato induista, particolareggia la prospettiva: «cibo e divoratori di cibo, così considera il mondo».

Il romanzo a dittico di McCarthy ha sbalordito i critici americani: non sottostà al canone, non se ne può discutere nei salotti, non contiene polemiche sociali, editti politici, tesi. McCarthy non provoca: scrive sul bronzo libri che leggeremo tra mille anni; ha a che fare con il profeta Ezechiele e con i poeti raminghi dei Veda più che con il sistema editoriale odierno.

Nato sotto il segno della morte - «Nel cuore della notte la neve si era posata leggera e i capelli di lei, irrigiditi dal gelo, sembravano aurei e vetrificati, mentre i suoi occhi erano gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e giaceva nella neve sottostante» (la traduzione è di Fabrizia Sabbatini, che ringrazio) - il romanzo realizza un'etica dell'agnizione e della spoliazione. «Sapeva che il giorno della sua morte avrebbe visto il suo volto, che gli sarebbe stato concesso di portare con sé quella bellezza nell'oscurità, lui, l'ultimo pagano sulla terra, che cantava, nel suo scarno giaciglio, quella nenia dolce, in una lingua sconosciuta». Lo scrittore: nient'altro che un'ospite che racconta ai rari astanti una storia terribile in una lingua ignota.

Non cercare di capirlo, lettore, addomestica le didascalie, faine inique, spegni la nenia dei mestatori di chiacchiere; rimani nel canto, ti basti quella selce di bellezza sulla soglia della morte, l'ombra di un viso per affrontare le tenebre, per essere meno solo al cospetto del giudice.

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