"Ecco come tornare a sfornare campioni"

Intervista a Mino Favini, il numero uno dei talent scout: "Formare meglio gli istruttori e meno squadre primavera con stranieri". E la Federcalcio avrebbe già chiesto il suo aiuto per le nazionali giovanili

di Ariel Feltri

Non sarà stato un gran Mondiale, si è visto di meglio (ma anche di peggio). Una cosa, però, è certa: ha vinto la squadra migliore, quella che più di altre ha mostrato un gioco collaudato e interpretato da calciatori dotati di personalità e tecnica superiore. La Spagna ha raccolto quanto seminato, in particolare, dal vivaio del Barcellona, da anni modellato sulle direttive del «guru» Johann Cruijff, la leggenda vivente dell’Olanda del calcio totale, consacrate nella capitale catalana.
«Quello spagnolo è il trionfo del vivaio, della scuola che privilegia la tecnica alla prestanza fisica e alla potenza atletica» - spiega convinto Mino Favini, classe 1936, brianzolo di Meda, il massimo esperto italiano di calcio giovanile, scopritore di un numero infinito di talenti, da Zambrotta, Borgonovo, Vierchowod nei 20 anni trascorsi a Como, a Morfeo, Tacchinardi, Guarente, Padoin in altri 20 anni alla guida del vivaio dell’Atalanta.
Spagna, Germania, Uruguay e Cile hanno messo in mostra giovani interessanti, mentre l’Italia ha schierato atleti al tramonto e alcuni giovanotti spaesati. Colpa delle mamme italiane che non producono più talenti?
«La responsabilità è nostra, dei settori giovanili, rimasti fermi per troppi anni. Oggi anche la Svizzera ci bagna il naso. Recuperare il terreno perduto è possibile, basta volerlo. Ma ci vorrà del tempo e molto duro lavoro, a cominciare dalla formazione di istruttori e di educatori».
Il declino italiano da cosa è dipeso? L’Atalanta, per esempio, il cui vivaio non molti anni fa era stato oggetto di studio persino dal Manchester United, per quale ragione si è trovata in difficoltà?
«Da 7-8 anni i grandi club hanno ricominciato ad investire nei vivai, mettendo sul tappeto cifre per noi impossibili. Hanno però puntato sulla ricerca di giovani di sicuro avvenire, indipendentemente dalla nazionalità. Oggi le formazioni primavera sono piene di ragazzi stranieri, da non confondere con i “nuovi italiani” che, ormai, rappresentano una realtà e un ricco potenziale. Non possiamo ignorare, inoltre, le difficoltà economiche in cui molti club medio piccoli sono costretti ad operare. Mantenere squadre, tecnici, organizzazione, la rete degli osservatori, gli accordi con le società collegate, costa parecchio. Ma bisogna avere fiducia e pazienza; prima o poi i risultati arrivano. Qui a Bergamo, con il ritorno di Percassi alla presidenza, abbiamo dato una bella accelerata e possiamo disporre di un budget annuo superiore (circa 4 milioni, ndr). Abbiamo quasi 300 giocatori distribuiti in 12 squadre con altrettanti allenatori che lavorano in sintonia: Bonacina alla primavera, Gallo con gli allievi e Perico con i giovanissimi perfezionano gli elementi usciti dalle prime selezioni».
Una impostazione, guarda caso, che ricorda da vicino quella del Barcellona...
«I modelli sono una buona cosa, ma conta come si applicano».
Insomma, lei è rimasto lo stesso del ’91, quando chiamò Prandelli, che un mese prima aveva chiuso la carriera di calciatore, ad occuparsi degli allievi.
«Il calcio è sempre lo stesso. Cambia tutto ciò che ruota intorno. Con Prandelli era normale e facile confrontarsi, se necessario anche discutere. Lui è una persona sensibile e al tempo stesso sicura. Le nostre idee erano vicine: primo posto alla tecnica, sempre. Dai primi calci alla prima squadra. E anche dopo, se uno vuol essere un professionista serio e desideroso di raggiungere prestigiosi traguardi. Istruire e abituare i giocatori, in particolare i più talentuosi, alla fatica e al sacrificio. Prandelli ha questa mentalità, che ha imparato qui da noi. Perciò, ne sono certo, farà bene in azzurro, nonostante le difficoltà enormi da superare».
Si dice che il neo ct abbia fatto il suo nome quale responsabile delle nazionali giovanili...
«Non so se lui mi vuole. A me non ha detto niente, l’ho appreso anch’io dai giornali. Ma anche se fosse, non potrei assumere un doppio incarico. Ho una certa età, e poi la mia vita è qui con l’Atalanta».
Favini è un uomo impossibile da spostare.

Ancora oggi, tutti i giorni, percorre i 55 chilometri da Meda a Zingonia, sede del vivaio nerazzurro, e tutte le sere rientra a casa dove lo attende la moglie Annapaola, conosciuta quando giocava nel Brescia (la sorella aveva sposato il compagno di squadra Eugenio Bersellini). A Meda i Favini sono sempre andati famosi per l’antico negozio di panetteria. Sfornavano michette. Mino, invece, sforna calciatori. L’inseguimento alla Spagna parte da qui.

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