
Se l'uomo che ha guidato la Banca Centrale Europea per quasi un decennio, colui che con tre parole whatever it takes salvò la moneta unica e, con essa, l'intero progetto comunitario, oggi sente il bisogno di suonare la sveglia dal palco del Meeting di Rimini, significa che la situazione dell'Europa è davvero drammatica. Mario Draghi non ha parlato da economista, né da ex premier: ha parlato da uomo che ha visto con chiarezza i limiti di un continente immobile, insieme lamentoso e impotente.
Il suo monito è semplice e spietato: il livello di libertà, benessere, welfare che l'Europa ha raggiunto non può essere dato per scontato. Anzi, ci siamo privati degli strumenti politici ed economici per difenderlo. Non siamo riusciti a evitare i dazi imposti da Trump, siamo stati marginali nella crisi ucraina, la Cina non ci considera interlocutori alla pari. Eppure la reazione prevalente è stata quella del piagnisteo, come se la realtà si potesse modificare con le proteste e non con politiche nuove, coerenti e coraggiose. La verità troppo scomoda per essere detta a voce alta è che non serve una nuova ricetta economica, né un maquillage istituzionale. Serve un patto sociale vero e nuovo, che richiami i cittadini europei a un concetto semplice, ma oggi quasi negato: libertà e benessere non esistono senza la responsabilità collettiva di conquistarli e difenderli.
Un grande industriale italiano mi ricordava, in una conversazione estiva, un dato significativo: una ricerca sul web eseguita con l'intelligenza artificiale consuma dieci volte più energia di una ricerca con un normale browser. Significa che in futuro, per competere, servirà sempre più energia e a costi sostenibili. Ma in questa stessa estate non si è letto altro che di proteste contro ogni nuovo impianto energetico: rigassificatori, pale eoliche, pannelli solari, dighe. Un no quasi generalizzato. E quel che è peggio: a guidare le mobilitazioni sono spesso gli stessi esponenti politici che nei talk show invocano modernizzazione e crescita, salvo poi incatenarsi alle cancellate quando la partita riguarda il proprio piccolo feudo elettorale.
È qui che il qualunquismo politico raggiunge l'apice. Non si tratta di discutere la bontà o meno di un singolo progetto certo, alcuni possono essere sbagliati ma quando il rifiuto diventa sistematico, non è la decisione a essere sbagliata, è la classe dirigente a essere inadeguata. Si predica sicurezza energetica senza assumersi la responsabilità di realizzarla, si invoca maggiore difesa senza volere armi per garantirla, si chiede ordine e giustizia internazionale a patto che non siano i nostri soldati a difenderli.
Milton Friedman ricordava: «non esiste un pasto gratis». È un ammonimento che la politica europea dovrebbe ripetere ai cittadini, anziché illuderli con facili scorciatoie e indignazioni di circostanza. La crisi non si supera scaricando colpe sulla Commissione che pure non ne è priva né puntando il dito contro la brutalità di Putin, la rozzezza di Trump o la slealtà commerciale della Cina. Si supera cambiando noi stessi, accettando il prezzo della responsabilità, trasmettendo il senso del sacrificio necessario a difendere un mondo che, senza questo sforzo, cambierà inevitabilmente in peggio.
Il qualunquismo
della politica italiana ed europea non è dunque solo retorica sterile: è l'anticamera della decadenza. Perché un continente che non sa più chiedere impegno ai suoi cittadini è un continente che si condanna all'irrilevanza.