Errare è umano, ma perseverare è diabolico e le banche centrali non possono più sbagliare. Il Wall Street Journal in un articolo ha criticato la Federal Reserve, la banca centrale americana. L'istituto guidato da Jerome Powell, fa notare l'analisi, nel 2021 si è sbagliato nel valutare l'inflazione come un fenomeno transitorio. Ne è derivata una corsa ai rialzi dei tassi d'interesse che hanno portato il costo del denaro nella forchetta 4,25-4,50% con l'ultimo ritocco da 50 punti base a dicembre. La Fed dice di voler continuare con altri rialzi e i mercati, spaventati, arretrano: una situazione che quasi a fine anno vede l'S&P 500, il principale paniere azionario Usa, cedere il 19% in quella che è la più grande perdita dalla crisi finanziaria del 2008.
La Banca centrale europea, guidata da Christine Lagarde, finora non si è mossa molto meglio rispetto ai colleghi americani. La scelta è stata di mollare subito i propositi dei «rialzi costanti e graduali». L'effetto è stato che oggi il tasso principale è al 2,5% dopo due rialzi consecutivi da 75 punti e uno, l'ultimo, da 50 punti. Un salasso per i Paesi più indebitati, che dovranno fare i conti anche con un quantitative tightening da 15 miliardi (il mancato rinnovo di titoli in scadenza) al mese. E mentre il Btp decennale italiano un anno fa rendeva l'1,2% e adesso sfiora il 4,5% per il futuro si va di copia e incolla con la Fed. Il governatore della Banca centrale olandese Klaas Knot ha affermato, al Financial Times, che la Bce continuerà ad alzare i tassi. Da qui a luglio 2023 la Bce rialzerebbe di mezzo punto i costi di finanziamento raggiungendo il picco entro l'estate. «Il rischio di fare troppo poco è ancora quello maggiore. Siamo solo all'inizio della seconda metà» di rialzi, ha aggiunto Knot, uno dei principali falchi del rigore nel board Bce. La vigilia di Natale, Isabel Schnabel, esponente tedesca del Comitato esecutivo Bce - e considerata una moderata - ha risposto alle critiche italiane: «Possiamo aspettarci ulteriore opposizione e dobbiamo resistere». E poi l'affondo: «Ai governi in generale non piacciono molto gli aumenti dei tassi. Pesano sulla posizione di bilancio perché rendono più costoso emettere nuovo debito». In parole povere: l'Italia pensi prima a fare meno debito.
Ma la paura di fare troppo poco, non rischia di trasformarsi in un nuovo errore? D'altro canto arrivano buoni segnali dalle materie prime. Sul fronte del petrolio, Brent e Wti galleggiano vicini agli 80 dollari al barile (a giugno si era intorno ai 120). E il gas, dopo l'accordo sul price cap, è precipitato a 83 euro al megawattora (ad agosto era a 345). Bloomberg, inoltre, fa notare come il prezzo di molti polimeri plastici sia ai minimi da due anni (la plastica è usata per confezionare tantissime cose). Tutti segnali, insomma, che l'inflazione potrebbe avere raggiunto il suo picco.
Stringere troppo vorrebbe dire recessione più profonda, anche se per il momento gli economisti di alcune banche - tra cui Goldman Sachs Group e Credit Suisse Group - vedono l'economia statunitense
evitare una flessione nel 2023. Per l'Eurozona, invece, la principali stime parlano di stagnazione o crescita vicina allo zero virgola. Ma, visti i precedenti, resta il timore che qualcuno possa sbagliare (ancora) i conti.
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