Edmund White, il "Papa" della letteratura gay che amava se stesso, il sesso e la scrittura

È morto a 85 anni l'autore Usa lanciato da Nabokov. Fu (anche) un precursore del mondo "queer"

Edmund White, il "Papa" della letteratura gay che amava se stesso, il sesso e la scrittura
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Povero Edmund White (foto di David Shankbone): morto a 85 anni, un caravanserraglio di premi al seguito l'ultimo, il «Saul Bellow Award», conferitogli nel 2018, lo condivide, per dire, con Philip Roth e Cormac McCarthy , relegato a «Pioneer of Queer Literature» (così il New York Times). Indipendente dal tema l'omosessualità , infine secondario, Edmund White è stato uno scrittore importante, per alcuni è uno dei grandi degli ultimi decenni. Il mio giudizio vale quanto quello di un alpaca, ma conviene cominciare dai libri biografici: quello su Jean Genet (Ladro di stile, in Italia lo stampa il Saggiatore) è formidabile; quello, esagitato, su Arthur Rimbaud (stampa Minimum fax), ha la verve di una riuscita arlecchinata (poi passate al Rimbaud di Benjamin Fondane). I critici dicono che il libro più bello di White sia Un giovane americano: pubblicato in origine nell'82, edito da Einaudi nel '90, è la storia, autobiografica, di un giovane Holden effeminato; dal 2019 è in catalogo Playground, eccellente casa editrice che pubblica tutto White. A Vladimir Nabokov, autore-pilastro per la vita letteraria di Edmund White, piacque il primo libro, Forgotten Elena. All'epoca, White, laureatosi in letteratura cinese alla University of Michigan, praticava nei giornali, lavorava alla Saturday Review. Era il 1973 e vinta un'iniziale, riottosa ritrosia, White inviò le bozze del libro a Nabokov, nell'edenico rifugio di Montreux. Nabokov rispose, laconico: «Non m'importa se sarà o meno pubblicato, io e mia moglie abbiamo apprezzato il romanzo, scritto in bilico, sull'orlo del baratro». White conserverà quel biglietto come un monito e un simulacro; ne scaturì un legame epistolare. «Nonostante le lettere e le telefonate, ho preferito non incontrare Nabokov. Ero terrorizzato, ero certo di sabotare la buona impressione che avevo di lui, resa leggendaria dalla distanza».

Negli anni Ottanta si trasferì in Francia: ottenne una borsa di studio, sfiancato dal provincialismo americano; tra l'altro, scrisse di Proust. Ha insegnato a Princeton, insegnando a «rubare le idee dagli scrittori, in particolare dai classici il solo viatico per scrivere in modo eccellente». Eccelleva nell'imporre il proprio io sull'altare letterario: dal suo io-capodoglio, un io-Moby Dick, nascono La bella stanza è vuota ('88) e La sinfonia dell'addio ('97).

Lettore famelico, amava Colette e Knut Hamsun; all'Arcobaleno delle gravità di Thomas Pynchon «affascinante ma noioso» preferiva Lolita, «un romanzo che ti fa credere che non ci sia nulla di più meraviglioso al mondo che scrivere un romanzo». Tra i contemporanei, ammirava James Merrill, Richard Ford e Milan Kundera; invidiava Truman Capote. Credeva nella bellezza, credeva che «uno scrittore, in fondo, non deve dare troppe risposte». In una intervista-fiume rilasciata alla Paris Review aprile 1988, l'intervistatore l'aveva stanato a Parigi, abitava, lui, il cardinale della letteratura gay, di fianco alla Chiesa di Saint-Louis-en-l'Île , disse di scrivere «come un pittore di strada, un ritrattista.

Credo che ogni creatura vivente abbia un odore distintivo lo voglio riprodurre». Questa carnalità ha domicilio nella parola arte. «Ho sempre associato la scrittura al sesso», chiosava, spesso. Doveva essere bello chiacchierare con Edmund.

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