da Roma
A confessare di essere effettivamente naif è stato proprio lui. Certo che a quel punto avrebbe forse dovuto seguire le riflessioni del barone di Montesquieu, il quale avvertiva come «meno si ha da riflettere, più si parla». Col rischio di creare gravi danni se, come è il caso di Angelo Rovati, si è una sorta di superconsigliere del principe, al secolo Romano Prodi.
Lultima uscita domenica, ipotizzando che il governo uscente possa anche fare un mare di nomine pubbliche prima del voto, ha sollevato un vespaio. Ma a finire nei guai, Angelone detto anche «il colosso di Prodi», ci è abituato da qualche tempo. Pochi hanno scordato laffaire Telecom coi pizzini di governo da lui inviati a Tronchetti Provera per cercare di sistemare la partita finanziaria della claudicante impresa telefonica. Allora era formalmente aggregato a Palazzo Chigi: consigliere del presidente del Consiglio dopo aver curato per mesi gli introiti ulivisti (donazioni) in nome e per conto del Professore. Seguirono polemiche, urla belluine, vecchie storie tirate nuovamente in piazza (come quella che lo vide protagonista, interrogato da Di Pietro, in una oscura storia di tangenti assieme a Grotti e a Panzavolta - ex-partigiano ed ex-manager di coop rosse e finanziatore di Primo Greganti attraverso il «conto Gabbietta» - per la cessione di una società dellEni alla Calcestruzzi di Gardini), finché il nostro decise di mollare lincarico per non nuocere maggiormente al Professore, col quale ha rapporti fin dal 1974, con entrambi nella sinistra dc. Meno che, da naif non seguace dellenciclopedista, comunicò laddio nel momento forse meno adatto: nel palazzo dellassemblea del popolo della Repubblica popolare cinese, proprio mentre era in pieno svolgimento il più importante dei colloqui del tour governativo, tra Prodi e Hu Jintao. Laddio di Rovati finì sulle prime pagine di tutti i giornali in cui venne invece ignorato labboccamento finale tra i numeri uno dItalia e Cina. Con Di Pietro che commentò acidino: «Ha ucciso il finale della missione! Certo poteva aspettare un altro giorno: mica lo inseguivano per metterlo in prigione!».
Lui spiegò che laveva fatto per Romano, «quello più in gamba di tutti noi» cui lui ed «altri goliardi» cercavano di dare una mano. Il brusco addio, insomma, si era reso necessario per evitare il rischio che Ds e Margherita - già dissociatisi da Palazzo Chigi sui consigli a Tronchetti Provera - potessero ulteriormente impiombargli le ali. In realtà le polemiche non si fermarono con le sue dimissioni. E da quel momento, di quella diffidenza reciproca tra Rovati e i due partiti che hanno poi formato il Pd, non solo cera già ampia traccia, visto che il tesoriere prodiano, per lamentare i «non versamenti» allUnione si era lagnato pubblicamente con una lettera ad un giornale, definendosi «pseudotesoriere dellUlivo» avendone in risposta lannuncio di Sposetti e Lusi (rispettivamente tesorieri di Ds e Margherita) che avrebbe senzaltro ricevuto «degli pseudosoldi», ma si capì che era destinata a proseguire. Come testimonia del resto una più recente «uscita» del Rovati, il quale - inserito tra i 45 padri fondatori del Pd - nellottobre scorso, ricomparso al fianco di Prodi in una visita del premier in Kazakistan (dove Angelone ha alcune aziende), ha parlato senza peli sulla lingua di «esperienza deludente». «Il Pd - ha spiegato - è partito male. Sa perché la gente è così infuriata? Perché prima cera un deputato che tornava nel suo collegio e si prendeva i suoi mazzi, mentre ora non sa più con chi incazzarsi. E il Pd che fa? Riproduce lo stesso sistema con le liste bloccate...».
Vede nero Rovati nel futuro del Pd. E qualcuno, a sinistra, incrocia le dita (per non dir di peggio). Eh già, perché quando smise di giocare a basket - serie A a Bologna e Cantù, oltre che nazionale - si fece presidente del Forlì e poi della Federbasket.
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