Letteratura

Fascismo in sala, ma il cinema di Rebatet è tutto un altro film

Nel 1941 il critico lamentava l'invasione ebrea del grande schermo. E in Italia proseguiva l'operazione pentimento...

Da alcuni anni Claudio Siniscalchi sta approntando una nuova mappatura del Novecento europeo fra le due guerre con il fascismo francese in primo piano, antisemitismo compreso, i suoi debiti ideologici con l'Italia e la Germania, la sua modernità reazionaria in campo artistico, cinema, letteratura, pittura, così diversa rispetto ai totalitarismi allora al potere. Quello del fascismo francese, del resto, è un caso di scuola, in quanto un unicum presente in un sistema democratico-parlamentare in crisi e però di fatto in sella, contiguo, ma non necessariamente in sintonia con la destra classica, aristocratica o reazionaria che fosse, e inficiato da quel sentimento di grandeur nazionale che non vedeva di buon occhio il poter essere o il dover essere debitore di culture altrui...

Studioso e appassionato di cinema, in questo nuovo libro, La grande invasione (Ardente editore, pagg. 131, euro 15), Siniscalchi focalizza la sua attenzione sulla figura di Lucien Rebatet, che fu il critico cinematografico par excellence degli anni Trenta in Francia e, stando a Henri Langlois, ovvero il papa e insieme il guru della cinematografia transalpina del secondo dopoguerra, «l'unico, insieme con François Truffaut, degno di questo nome». Lo fa pubblicando in appendice al suo lungo saggio introduttivo un testo dello stesso Rebaret, Le tribus du cinéma, apparso nel 1941 sul settimanale Je suis partout, e tradotto e pubblicato in Italia nel 1943, in più puntate, con quel titolo prima citato, sul settimanale Film.

Un anno dopo l'uscita di quegli articoli in patria, in cui in pratica si accusavano gli ebrei di Francia di aver colonizzato e distrutto il cinema francese, ovvero una gloria nazionale, visto che si trattava di un'invenzione dei fratelli Lumière, Rebatet scrisse Les décombres, un fluviale pamphlet che fu il più grande successo editoriale dell'epoca, in cui venivano presi di mira non solo gli ebrei, ma anche la Francia di Vichy (il libro venne vietato nella cosiddetta Francia «libera») e, più in generale, le istituzioni repubblicane colpevoli della disfatta militare del 1940. Libro che insieme al collaborazionismo filotedesco del suo autore valse a quest'ultimo una condanna a morte nel 1945, poi tramutata in ergastolo, e in pratica gli distrusse la carriera. Nemmeno la pubblicazione nel 1952 di Les deux étendards, I due stendardi (in Italia lo ha pubblicato la casa editrice Settecolori), considerato nel tempo uno dei grandi romanzi del Novecento francese e non solo, valse a sollevarlo dall'oblio e dalla damnatio memoriae.

Siniscalchi sceglie dunque un caso esemplare, «Il Céline della critica cinematografica» si intitola infatti la sua lunga introduzione, ma ciò che rende La grande invasione interessante, non è il côté francese, di per sé contingente se non corrivo, «una falsificazione della storia del cinema francese la cui evoluzione è decifrata attraverso le lenti deformanti dell'antisemitismo», la definisce Siniscalchi, quanto i suoi ricaschi sul panorama ideologico-culturale italiano. E vale la pena soffermarsi su questo punto.

Se si dà un occhio alle date, si vedrà che la rivista Film traduce il testo, più o meno integralmente, nel maggio 1943, appena due mesi prima, dunque, di quel 25 luglio in cui il Gran Consiglio liquida Mussolini e con lui il fascismo al potere. Più che il frutto di una miopia, politica e/o razziale, quella scelta non è che l'effetto dell'onda lunga che il «consenso fascista», stabilizzatosi dopo la vittoriosa campagna d'Etiopia, ha portato con sé sino a quel giugno 1940 in cui l'Italia ha deciso di entrare in guerra, e come tale destinato a durare almeno sino a tutto il 1942. È quanto, anche generazionalmente, emerge dalle pagine di una rivista come Primato, dove Bottai, in nome dell'«interventismo della cultura», chiama a raccolta gli intellettuali fascisti per «ottenere da loro non un sottomettersi disciplinato agli eventi, quanto un parteciparvi, un penetrarli, un comprenderli per dominarli».

Non sorprende che il cosiddetto «romanticismo fascista» di marca francese susciti scarso o nessun interesse nei giovani intellettuali fascisti italiani. Il sottinteso, come emerge benissimo dalle considerazioni che il poco più che ventenne Giaime Pintor fa proprio su Primato, è che quest'ultimi la rivoluzione l'hanno fatta, mentre i cugini francesi sono fondamentalmente dei decadenti, dei reazionari, che solo la catastrofe militare ha risvegliato dal sonno della mediocrità. Pintor ce l'ha soprattutto con Drieu La Rochelle e con Montherlant, non cita mai Brasillach, che decadente non è per niente, né, osserva Siniscalchi, Rebatet, idem come sopra. Se sia per scelta, per una semplice dimenticanza oppure per non averli mai letti, non sappiamo, anche se, a differenza di Siniscalchi, non sopravvaluteremmo più di tanto l'importanza sul piano delle idee di Rebatet. Les décombres che lo ha fatto conoscere al grande pubblico è un pamphlet umorale, un'invettiva lunga centinaia di pagine, ma ideologicamente è poca cosa.

Pintor è per età un puro prodotto del fascismo, così come lo sono Enrico Fulchignoni, il traduttore per Film del reportage di Rebatet, Mino Doletti, che di Film è il direttore, Carlo Lizzani, che ancora nel 1941 recensisce positivamente una pellicola come Süss l'ebreo, o Ruggero Zangrandi, al quale si deve Il lungo viaggio attraverso il fascismo, in cui vengono un po' truccate le carte per uscire dall'impasse di essere stati fascisti più o meno sino alla caduta del fascismo stesso e antifascisti non per scelta pregressa, ma come presa d'atto e insieme come voglia di rivalsa al venir meno di una rivoluzione, ovvero di un'illusione.

Il cuore del saggio di Siniscalchi è proprio qui e ha buon gioco nel mettere in evidenza come nel racconto di Zangrandi, compagno di banco al liceo di Vittorio Mussolini, la sua «presa di coscienza» antifascista, fatta risalire al 1936, si nutra di formule fantasiose, in assenza di posizioni «frondiste» reali: «antifascismo inconsapevole», «antifascismo inconscio», cose così... Una generazione innocente e tradita, insomma, anche se ancora nel 1939 Zangrandi scriverà un saggio dedicato alla ineluttabilità di combattere il comunismo nella guerra di Spagna...

Nelle loro autobiografie, sia Zangrandi sia Lizzani, osserva Siniscalchi, ammettono sì di essere stati suggestionati dagli argomenti del regime fascista, la lotta alla borghesia e la rivoluzione, ma, si giustificano, non si trattava altro che di un «combinato disposto di demagogia e inganno». Tuttavia, come ha osservato uno storico del fascismo qual è Emilio Gentile, al fascismo si può imputare tutto, tranne il tentativo di aver mascherato idee e finalità: «Il paradosso del fascino fascista risiede proprio nella sincerità della sua ideologia»...

La grande invasione non è dunque soltanto un'analisi brillante di un testo in fondo secondario di Lucien Rebatet, di mero valore documentario, ma il racconto di una fascinazione rivoluzionaria che attraversò in profondità il primo quarantennio del secolo. Classe 1903, Rebaret è di circa un decennio più grande della media degli italiani prima citati, e la sua giovinezza si compie in quella Francia in cui il caso Dreyfus sposta l'antisemitismo da sinistra, dove aveva alloggiato per tutto l'Ottocento, a destra. Maurrassiano, ma né cattolico né antitedesco, Rebatet fu anche un brillante critico musicale, ma solo alla metà degli anni Trenta, con l'avvento del Fronte popolare, entrò nel giornalismo politico e da nazionalista si riscoprì nazionalsocialista, più che fascista, anche se, cinematograficamente parlando, fu «un americanofilo», con un ventennio d'anticipo, scrive Siniscalchi, sui «giovani turchi», i Rohmer, i Godard, della cosiddetta «nouvelle vague».

Nella sua ricostruzione di Les tribus du cinéma, osserva ancora Siniscalchi, Rebatet «adattò alla storia del cinema in Francia lo schema servito a Wagner per comporre il suo articolo-manifesto sul giudaismo musicale pubblicato nel 1850»...

Nella Francia di Vichy, l'antisemitismo si rivelò una fogna più per volontà francese che per istigazione tedesca, e ancora adesso resta una delle pagine meno note, coperte da una lunghissima coda di paglia, della sua storia. Di quella fogna Rebatet fece sì parte; non era però il solo.

E in fondo pagò per molti se non per tutti.

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