Fenomenologia di Umberto E.

Definirlo è molto facile. I giornali di solito scelgono, a caso, tra: a) «L’intellettuale italiano più conosciuto nel mondo», b) «Un uomo di una cultura enciclopedica»; c) «Il semiologo ha sempre il sopravvento sul romanziere», d) «Il nome della rosa era un brutto film».
Comunque, è il Professore per antonomasia delle nostre Lettere. Appese alle pareti di casa, oltre a un paio di chilometri di scaffali per i suoi 40mila libri (molti, dicunt, li «prendeva in prestito» alla Rai, dove negli anni Cinquanta lavorava ai programmi culturali), ha incorniciate 35 lauree honoris causa. Dice che così quando la gente entra in casa sua si sente subito in inferiorità intellettuale. Poi, come fai a dargli torto?
Poi, come fai a dire qualcosa di destra su uno così di sinistra da affermare che «se vincono gli altri non significa però che la maggioranza abbia ragione, e comunque la democrazia è in pericolo»; uno così snob che a te, caro ministro Bondi, la mano non te la stringo, perché la cultura è essentialiter di Sinistra e tu sei di Forza Italia, ergo di destra, ergo ur-fascista; uno così orgoglioso della propria padronanza stilistica e linguistica da sboccare volentieri in metafore falliche (oggi è il grattacielo di Libeskind che ha bisogno del Viagra, ieri - Bologna, campagna elettorale del ’94 - era «basta farsi le seghe, compagni, se no lo prendiamo in culo!»); uno così snob da tenere nel cassetto una cartelletta di ritagli di titoli di giornali in tutte le lingue indoeuropee che giocano sul suo nome, tipo «L’eco di Eco» o «Un libro che farà Eco» o quello possibile per quest’articolo: «Ecografia di un maître à penser, e anche à parler».
Critico, saggista, romanziere, semiologo, appassionato lettore di san Tommaso d’Aquino e Dylan Dog, dotto polemista inutilmente polemico, bestsellerista molto utilitarista (tiene molto, dicono, ai diritti di autore e di traduzione), teorico dei mezzi di comunicazione di massa e in pratica superuomo per le masse, accademico rigorosissimo e narratore pop.
E pensare che da piccolo - ironia del destino - voleva fare solo il pianista di piano-bar.
Fenomenologia di un fenomeno, ovvero: ritratto di Umberto Eco, un italiano che ha lasciato il segno e a cui piace dire di voler lasciare l’Italia ogni volta che non gli piace chi la governa. Intellettuale-puzzle indefinibile da una sola tessera (prima cattolico impegnato e poi pensatore laico, all’inizio integratissimo soprattutto al Pci e oggi apocalittico anti-berlusconiano, scrittore globale e politologo un po’ provinciale, moralista rigoroso e soprattutto umorista involontario), Grande Sapiente che spazia con disinvoltura da Athanasius Kircher a Rita Pavone, dall’ornitorinco a Kant, Umberto Eco è il caso più vistoso di Intoccabile di professione. Da vero intellettuale pensa che le idee, in particolare le sue, abbiano una funzione sociale, e le comunica al volgo, che poi siamo noi, insegnandoci come si sta al mondo. D’altronde, essendo oltre che cultore dilettante di flauto dolce e serissimo giocoliere della parola, anche primo Semiologo d’Europa, come nessun altro sa spiegare - agli altri - il rapporto tra i segni e la vita. Lupus in fabula.
Indeciso semanticamente se il vero autore di un testo sia lo scrittore empirico o il lettore esplicito; incerto, giornalisticamente, se le dichiarazioni siano di chi le legge o di chi le scrive, e nel dubbio meglio se si riesce ad attribuire ad altri le proprie volgarità; e personalmente convinto che Dan Brown abbia copiato da Il nome della rosa e che comunque i propri libri siano grandi romanzi (si dice che dopo Woobinda di Aldo Nove non ne abbia più letti, solo scritti), Umberto Eco - con quella proverbiale ostinazione piemontese che gli appartiene - di una cosa è sicurissimo. Che il principale pericolo per l’Italia, ma solo casualmente a partire dal 1993, sia il populismo mediatico, un morbo letale (e ci sfugge completamente a chi stia pensando il professore) che consiste nel rivolgersi direttamente al popolo attraverso i media, usandoli per orientare il corso della politica al di fuori del Parlamento, minando le basi stesse del sistema democratico, persino instaurando - nella fase terminale - un regime dittatoriale, addirittura il controllo delle coscienze, addirittura il lavaggio del cervello, addirittura la censura delle idee. Un sistema orwelliano, insomma, che vieta nel modo più assoluto a un qualsiasi cittadino dissenziente di avere, chessò, un paio di cattedre universitarie, una rubrica sull’Espresso, una collaborazione con Repubblica, un grosso editore per i propri libri.
Spirito convinto che l’intellettuale è anche un uomo di azione, Umberto Eco ha avuto - tra le tante - una (s)fortuna: far parte del famigerato Gruppo 63 che, al contrario di tutti gli avanguardisti nati incendiari e morti pompieri, fu un movimento nato nella caserma dei pompieri ma dalla quale in molti uscirono incendiari. Un vizio, quello di dar fuoco alle polveri, che l’Umberto (odia l’articolo davanti ai nomi) non ha mai perso, da quando firmava, anno di scarsa grazia 1971, il manifesto contro il commissario Calabresi fino alle ultime esternazioni di guerriglia semiologia in difesa della democrazia in pericolo e dei ministri della Cultura indegni e incompetenti.

Ma Eco, si sa, è un patafisico, uno a cui piace scherzare, uno che spazia con disinvoltura dalla cultura alta alla cultura bassa, dal colto all’inclito, da Heidegger ad Heidi, da Buzzati a Buzzanca, da Adorno ad Adornato. Da Eunapio di Sardi a Lando il camionista. E, all’occorrenza, da James Bond a Sandro Bondi.

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