FLATFORM Gli «eretici» nei santuari dell’arte

Se Maometto non va alla montagna è la montagna che va da Maometto, devono aver pensato i componenti di Flatform, un gruppo di artisti nato a Milano nel 2006, che quest’estate ha sperimentato un nuovo modo di comunicare l’arte. Bando a musei, gallerie o fiere, il loro motto è far da sé alla maniera degli artisti di strada ma con il bagaglio delle tecnologia d’avanguardia e la conoscenza dei nuovi media.
Il loro tour estivo nei luoghi «Mecca» dell’arte contemporanea - dalla Biennale di Venezia alle rassegne tedesche «Documenta» di Kassel e «Skulptur Project» di Munster, alla prestigiosa fiera d’arte di Basilea - ha avuto il sapore di una provocazione verso un sistema dell’arte governato dalle gallerie e dalle case d’asta internazionali. Ma non solo. Lo scopo del progetto è stato soprattutto quello di sottolineare l’esigenza di creare nuove modalità di relazione tra l’opera e il pubblico, nella consapevolezza che l’arte e la vita convergono armonicamente in una vera architettura organica «in cui lo spazio riflette la bellezza del vivere».
L’opera del gruppo milanese, intitolata «The Flat Case», consiste in una videoinstallazione mobile su quattro ruote, una sorta di totem mediatico che trasmette in continuazione i video creati dagli artisti. Ma il cuore del progetto è squisitamente performativo. I Flatform, infatti, hanno viaggiato con la loro tecnoscultura nei luoghi che quest’anno hanno ospitato le più importanti manifestazioni d’arte europee, quelle che per intenderci consacrano le star del futuro. La provocazione nasce dal fatto che gli artisti milanesi non figuravano all’interno delle selezioni dei curatori; «infiltrati» dunque, ma sempre rigorosamente all’esterno degli spazi in cui si svolgevano le mostre. Ma l’effetto è stato ugualmente dirompente tanto da distrarre l’attenzione del pubblico degli appassionati d’arte e dei critici che quest’estate, a migliaia, ha girovagato per l’intera Europa.
La videoinstallazione appariva e scompariva come un’astronave extraterrestre, ora all’Arsenale di Venezia davanti all’ingresso della Biennale, ora all’entrata del «Fredriciarum Museum» di Kassel (sede principale della quadriennale «Documenta»), ora nella linda piazza antistante «Art Basel», la prima fiera d’arte d’Europa. «In questo progetto - spiegano i protagonisti del gruppo Flatform - convergono tantissime questioni riguardanti il territorio e le regole sulla stanzialità, che è una questione cruciale della società contemporanea. Noi stessi diveniamo “territorio” attraverso l'ingombro del nostro corpo che stanzia, si muove, agisce. Come dire: è la presenza fonda lo spazio».
Non è un caso che i video mandati in onda sottolineino proprio il concetto di territorialità, «nel senso di “fare territorio” non esclusivamente in un senso astratto, sociologico, politico, bensì nella sua accezione fisica - sottolineano gli artisti -. Da un punto di vista delle modalità sulla ricezione dell'arte, pensiamo invece che la fruizione di un video in movimento sia già, di per sè, un'esperienza singolare». Nel video About Zero, una lunga carrellata di architetture urbane si presenta sospesa nel vuoto in una visione metafisica della realtà che ci circonda. Nel secondo video, intitolato In natura non esistono effetti speciali, solo conseguenze, un uomo inquadrato in una stanza vuota assume dei movimenti e delle posture continuamente fuori baricentro, suscitando negli spettatori un senso di squilibrio nei confronti dello spazio.
L’effetto sorpresa e l’originalità del progetto hanno riscosso l’entusiasmo di numerosi spettatori che ogni giorno, prima dell’ingresso nei musei, hanno sostato formando capannelli attorno all’opera e chiedendo informazioni sugli artisti “pirata”. I quali, in qualche caso, hanno dovuto subire tentativi di boicottaggio da parte degli organizzatori delle mostre «ufficiali», come è accaduto alla Fiera di Basilea, dove l’arte è strettamente connessa al grande business.

Ma il bilancio della missione, dicono i Flatform, è più che positivo, pur con qualche considerazione: «I critici tedeschi e svizzeri - dicono gli artisti milanesi - hanno apprezzato l’operazione molto più degli italiani che pure, alle grandi mostre in Germania, hanno avuto una scarsissima rappresentanza. È proprio vero nessuno è profeta in patria...».

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