Una fusione che dà lustro a Milano

Mi verranno di sicuro rimproverati, per le noterelle che seguono, peccati di campanilismo e di meschinità cultural-economica. Ma sta di fatto che, come milanese di remota adozione - sono stato portato all’ombra della Madonnina a un anno di età, e venivo dalla vicina Crema - ho avvertito un brivido d’orgoglio all’annuncio della fusione Unicredit-Hvb. Di solito queste colossali operazioni finanziarie mi lasciano piuttosto indifferente, e magari alimentano in me il sospetto malizioso che avvengano alle spalle dei piccoli risparmiatori. Ho scorso senza capirci granché i meccanismi riguardanti il matrimonio dei due giganti che daranno vita alla quarta banca della zona euro. Ma mi è subito risultato chiaro che il quartier generale dove è stata elaborata la grande manovra è in piazza Cordusio a Milano. Che bellezza. E poi ho letto che, nell’accordo, Unicredit ha avuto il ruolo d’un partner gagliardo e prospero che si associa, per risanarlo, a un partner in difficoltà. Il partner sano e prospero è italiano, quello in crisi è tedesco, i ruoli tradizionali della recita industrial-finanziaria sono sovvertiti.
Ma non di questo voglio - anche per manifesta incompetenza - occuparmi. Voglio invece occuparmi del segnale di vitalità e di creatività imprenditoriale che viene da Milano: e che contraddice, a Dio piacendo, tante voci pessimiste e tanti pronostici lugubri sul futuro di quella che un tempo veniva chiamata la «capitale morale». Per carità, nessuno vuol chiudere gli occhi di fronte ai problemi, e ai guai, che assediano Milano. Ma negli ultimi tempi era di moda - almeno così mi è parso - metterne in dubbio il primato proprio in quei settori - la finanza, l’industria, l’editoria, e aggiungiamoci pure la cultura - che l’avevano vista primeggiare a lungo. Una statistica citata di recente - la ricordo solo vagamente - anteponeva addirittura Roma a Milano per il prodotto che vi viene realizzato. Roba da far accapponare la pelle ai leghisti.
Lo so, ci furono momenti molto grami per Milano. Non tanto «mani pulite», che investì la politica, quanto scandali e casi di pessima gestione - come quelli del Banco Ambrosiano e del Corriere della Sera - che investirono il cuore economico della città. E le tolsero credibilità e prestigio insieme. Ai momenti grami appartenne anche la perdita di marchi blasonati milanesi passati sotto il controllo degli Agnelli, ossia di Torino.

Fu la sorte dell’Alfa Romeo, fu la sorte del già citato Corriere della Sera. Per di più erano spariti malinconicamente dalla scena - a causa d’errori madornali ai vertici e alla base - i leggendari Motta e Alemagna. Senza panettone, senza auto, con (...)

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