La generazione Z è uno strano caso. Sembra fragile e persa nel digitale ma forse è molto simile a noi

La generazione Z è uno strano caso. Sembra fragile e persa nel digitale ma forse è  molto simile a noi

La fuga immobile, titolo del nuovo saggio di Walter Siti, è la postura esistenziale della Generazione Z ovvero dei ragazzi nati tra il 1997 e il 2012. Una generazione spesso descritta come cresciuta nell'ovatta e dunque fragile. L'esperienza del mondo è mediata dal mondo dei social network (tranne quelli per "vecchi" come Facebook) e della tecnologia in generale. Il gesto tipico è lo "scrollare" di chi salta con un dito da un video all'altro. Il sesso pare meno importante. E si socializza nella vita virtuale non meno che in quella "reale".

Siti trova una bella definizione per descrivere la temperie in cui sono cresciuti: "cancellatori culturali nativi". I ragazzi hanno respirato l'aria del politicamente corretto fin dalla culla. Per loro è ovvio che alcune parole siano percepite come offensive ("negro"), e che l'inclusione sia il modo giusto di affrontare la sfera della sessualità, complessa e sfaccettata, e della razza. Il politicamente corretto, diventato woke, può, paradossalmente, sottolineare (troppo) proprio le differenze che vorrebbe eliminare in nome dell'uguaglianza assoluta. Inoltre presuppone un atteggiamento paternalistico nel campo delicato dell'educazione: e quindi riscriviamo Via col vento, romanzo razzista. La conoscenza, nota Siti, è anche "libero azzardo", caduta senza paracadute nelle proprie paure, scoperta di luoghi misteriosi, facoltà di sbagliare e poi di "sbagliare meglio" (Samuel Beckett). Siti è abilissimo non solo nello spiegare le radici della cultura woke ma anche nel metterne in luce le contraddizioni: "Le attiviste che si indignano in quanto donne nere poi si lamentano di essere ridotte al solo colore della pelle". Questa parte occupa circa metà del libro (pubblicato dalla Silvio Berlusconi editore, pagg. 156, euro 18) e ve la lasciamo scoprire. Qui vogliamo invece discutere di altro.

Le osservazioni di Siti, per quanto ricche di sfumature, diventano meno convincenti quando affronta il tema centrale del libro: la Generazione Z. La ricostruzione di Siti è perfetta se rimaniamo negli atenei e nelle strade dove vivono le classi sociali agiate. Perde forza mano a mano che ci avviciniamo ai quartieri popolari. La maggioranza dei ragazzi ignora quasi completamente il mondo woke. È vero, come dice Siti, che tutti i ragazzi crescono in quel tipo di cultura, magari senza averne coscienza. Ma ne prendono e fanno valere solo alcuni aspetti. Il fattore "classe sociale" non è affatto superato: più ci allontaniamo dalle scuole del centro meno diventa pervasiva la cultura del politicamente corretto, che viene "mangiata" a pezzi, quelli più convenienti, ad esempio l'ipersensibilità nei confronti dei professori tanto "tirannici" quanto "morti di fame" indegni di rispetto. Altro fattore chiave è l'immigrazione: anche in questo caso, del politicamente corretto viene assimilato soltanto il vittimismo. La parità tra i sessi, per fare un esempio, non è nemmeno presa in considerazione. La "guerra" tra bande, che tanto ha colpito l'opinione pubblica, ha caratteristiche più variegate di quelle che individua Siti. Ci sono le guerre "etniche" per il controllo dei quartieri periferici, latini (sudamericani) contro magrebini, come sa bene, per esempio, chi vive in certe zone di Milano. Poi ci sono le guerre "di territorio" per l'occupazione simbolica del centro: per continuare nell'esempio, latini e magrebini qui sono alleati contro i privilegiati "bianchi". Infine c'è il vecchio bullismo per bande scolastiche, all'interno e fuori dall'istituto. C'è sempre stato e ci sarà sempre. Così come ci sono e ci saranno sempre i fragili e i forti, le vittime e i carnefici, i solitari e i socievoli, gli introversi e gli estroversi, i sessualmente incerti e i precoci, i timidi e gli spavaldi. La differenza, tra una generazione e l'altra, e la Z in particolare, è la quantità di informazioni di cui disponiamo. Ma neppure si può dire che siano informazioni decisive, il web e i social sono indicativi fino a un certo punto, quello in cui il ragazzo spegne il computer o il cellulare e si rende conto della differenza tra il mondo virtuale e quello reale, tra i cazzotti analogici e le carezze digitali. I social sono più rivelatori dei comportamenti dei cinquanta-sessantenni, che li usano senza scetticismo e distacco, basta guardare l'età media di chi partecipa alle risse digitali. Insomma, l'uomo è sempre uguale a se stesso. Può sforzarsi di cambiare, e perfino riuscirci, ma nessuna conquista è eterna, nessuna influenza, nessuna esperienza, perfino nessuna tragedia è in grado di cambiare la nostra natura ancestrale. Siamo animali educati, ma scordiamo subito l'educazione se diventa un ostacolo alla realizzazione di alcuni impulsi primari. Perché il mondo ciclicamente ha voglia di menare le mani? Non siamo forse consapevoli degli orrori della guerra? Eppure l'uomo continua a farla.

Per finire, l'identità. I ragazzi sarebbero insicuri a causa del giudizio continuo al quale sono sottoposti nel mondo digitale. Grande importanza è attribuita, nel libro, alla identità sessuale. Giusto. Però ci chiediamo: la fragilità non sarà creata dalla smania di mettere un nome a qualsiasi cosa mentre i sentimenti non accettano etichette, sono "maleducati" (Siti) e talvolta sporchi? Innanzi tutto il desiderio. La definizione meticolosa dell'identità sessuale crea confusione in chi, la maggior parte, non si riconosce e spesso neppure conosce le teorie di genere. Genera insicurezza e non solo nel campo sessuale. Chiede infatti all'adolescente un enorme sacrificio: definirsi solo o principalmente attraverso la tendenza sessuale. Importantissima. Ma il sesso non esaurisce i modi in cui un uomo pensa a se stesso. E i genitori? Possono forse avere modi diversi rispetto alle generazioni precedenti, quando si usava lo scappellotto educativo o quando era normale avere dieci figli e non accorgersi che uno era rimasto fuori tutta la notte. Ma nella sostanza non si scappa: il terrore di ogni padre, da sempre e per sempre, è di sopravvivere al figlio, tanto è vero che non esiste neppure una parola per designare la condizione mostruosa e innaturale di chi deve seppellire il proprio bambino (che è tale, naturalmente, anche quando ha sessant'anni, non si muore del resto invocando la protezione della mamma?).

Infine i social. La generazione X ha visto nascere il web, ne ha intravisto le potenzialità libertarie, e le derive autoritarie in cui le autorità si chiamano Facebook o Google, non Donald Trump. Che il destino del capitalismo fosse la sorveglianza era chiaro fin dall'inizio, o quasi, quando alcuni ribelli decisero che la chiave era cifrare le proprie informazioni e decifrare quelle dello Stato e delle grandi aziende tech. Julian Assange (1971) nasce così. La generazione Z ha questa consapevolezza? Ha capito il valore delle informazioni che volontariamente cede a chi le trasforma in merce? Non abbiamo una risposta. In fondo la stessa generazione Z vive l'ennesima rivoluzione tecnologica e politica: l'intelligenza artificiale, e la fusione tra biologico e meccanico; e la convergenza di aziende private tech e agenzie statali, nel nome della sicurezza (a spese della libertà).

Opinioni, ovviamente, e domande suscitate da un saggio piacevole,

ben scritto e pieno di spunti. Nell'arco delle sue pagine, si parte col capire le differenze che ci separano dai ragazzi ma si finisce col trovarli, sorpresa, simili a noi, anche se probabilmente Siti non sarebbe d'accordo.

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