nostro inviato a Pechino
Il maoismo aveva fatto proprio un antico proverbio mongolo che recitava. «A porte chiuse si è imperatore nel proprio regno». Il post-maoismo lo ha sostituito con un altrettanto antico proverbio cinese che dice: «Se non entrare nella tana della tigre, come farete a portargli via i cuccioli?». Le Olimpiadi sono quella tana, e i cuccioli rappresentano la scommessa sul proprio futuro come grande nazione fiera della sua potenza. Il rischio è una o più zampate, si chiamino attentati, manifestazioni o proteste, già puntualmente verificatesi, ma di cui oggi nessuno può dire se si tratti di semplici graffi o di future ferite più profonde. Sarebbe un errore, tuttavia, valutarle secondo un'ottica puramente internazionale e/occidentale, come di fatto è avvenuto a proposito del Tibet. La Cina, lo si sarà capito, dà per scontata un'incomprensione nei suoi riguardi e giudica perduta in partenza la battaglia dell'immagine condotta su un terreno altrui e che non può controllare. C'è in questo un vecchio pregiudizio (fondato o no), che nei secoli ha potuto anche colorarsi di tinte xenofobe se è vero che, ancora alla metà del XX secolo, il carattere cinese con cui venivano indicati i «barbari» ovvero gli stranieri, era lo stesso con cui si designavano i cani...
La partita è più delicata ed è tutta interna, nel senso che se i giochi sono una esibizione della Cina al mondo, ancora di più vanno intesi come uno show che serve a stupire, rassicurare, esaltare i cinesi stessi. È il messaggio che la classe dirigente rivolge al suo popolo. Guardate dove vi ho portato, è l'esplicito sottinteso, guardate che cosa vi ho fatto diventare e quanto quindi sono stata e sono brava... È per questo che non devono fallire, non possono fallire: i primi a «perdere la faccia» sarebbero proprio loro, il Partito, la nomenclatura, l'élite di governo.
Apparentemente è un messaggio che ha dalla sua l'evidenza dei risultati, ma se si va un po' più a fondo ci si accorge che non è poi così inoppugnabile. Secondo molti osservatori, i cambiamenti degli ultimi 20 anni non sono attribuibili ai soli e unici dirigenti politici. Oliver August, già corrispondente del Times da Pechino e autore di un reportage, Inside the Red Mansion, sul capitalista Lai Chanxing divenuto il latitante più ricercato della Cina (in Italia è stato ora tradotto da Adelphi con il titolo Il fuggiasco di Xiamen) sostiene che, certo, «hanno sostituito i mercati finanziari e le zone di libero scambio, ma i veri riformatori sono stati i singoli cittadini che rischiano la pelle per riuscire a barcamenarsi. Sono state le loro aspirazioni a scardinare il vecchio ordine dando vita alla Cina moderna. Il Paese non sta affrontando un percorso di riforme verticistico come di solito viene descritto. Non c'è nessun programma coerente gestito dall'autorità centrale. La Cina si destreggia fra marce indietro (da parte del governo) e rivolte, e sono gli infiniti atti di disobbedienza del singolo che determinano le grandi trasformazioni». Qualche dato, di fonte ufficiale e quindi ancora più significativo, aiuta a chiarirsi le idee. Dal 1974 al 2004 il numero delle persone coinvolte in proteste pubbliche è passato da circa 700mila a quasi 4 milioni, gli scioperi da mille a oltre 20mila e gli scioperanti da 70mila a 800mila. Piccoli numeri, si dirà, ma per dissentire sotto un regime autoritario ci vuole coraggio ed esasperazione, e sono comunque la punta dell'iceberg di uno stato d'animo.
In sostanza quello che da allora, e poi soprattutto dall'ultimo ventennio, si è andato assistendo è una transizione che da un lato sembra non debba mai finire e dall'altro, paradossalmente, moltiplica all'infinito i momenti d'impatto e di connivenza, il giro di vite e il cercare di evitarlo, la repressione e la difficoltà a reprimere. Sopravvivono censura e tortura, ma c'è Internet, ci sono le mazzette degli imprenditori e i funzionari di Stato che grazie a esse pagano il mutuo di casa e l'istruzione scolastica dei figli, l'espansione edilizia vertiginosa che espelle dal proprio orizzonte anche i cimiteri, perché sempre di terreno edificabile si tratta, e l'utilizzo disinvolto di tecniche e di materiali che si rivela criminale alla prima scossa di terremoto. Trecento milioni di neo-borghesi evasori fiscali con il consenso tacito delle autorità, convivono con un miliardo di connazionali che aspirano al benessere, ma intanto conoscono un mercato del lavoro allo stato brado.
Vent'anni significa da Tiananmen a oggi. Allora, vale la pena ricordarlo, Pechino fu attraversata da un vento di protesta che durò un mese e mezzo e interessò un milione di persone, ci furono manifestazioni in altre 18 fra le più importanti città della Cina. In quella piazza sfilarono universitari provenienti da 319 atenei... A reprimerli non ci fu un partito unito: dopo la legge marziale, 150 alti ufficiali fecero sapere che non avrebbero sparato sulla folla e un terzo del Comitato centrale cercò sino alla fine di raggiungere un compromesso. Era una Cina in cui riforme politiche e riforme economiche avevano in qualche modo proceduto assieme, ma era anche una Cina dove l'inflazione andava salendo e la crescita scendendo, e questo in forte contrasto con la corruzione e il lusso della nomenclatura... Alla fine ci furono oltre 400morti, qualcosa come 7mila feriti e che molti di questi fossero studenti fu sentito come un'offesa all'anima di una nazione che nel figlio maschio e nello studio vedeva il simbolo della propria realizzazione. Da allora, come per un tacito accordo, ciascuno ha più o meno fatto la sua parte, libertà economica in cambio dello status quo politico, ma suona un po' come il Comma 22 dell'omonimo romanzo di Heller, quello che sosteneva: «L'unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia. Chiunque lo chiede non è pazzo». Detto in cinese, l'unico motivo valido per chiedere la democrazia è il voler essere liberi, ma chi la chiede va rinchiuso...
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