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Giovani e imprese, il coraggio non basta

Sul Giornale di venerdì c'era una pagina dedicata ai «baby chef» italiani emergenti, cui è riservato un intero capitolo di «Identità golose», guida ai ristoranti italiani del nostro giornalista, e notissimo enogastronomo, Paolo Marchi.
E mi ha colpito, molto negativamente, il fatto che tra i 32 cuochi emergenti sotto i trent'anni non ce ne sia neppure uno che lavori a Milano. Eppure nella nostra città i ristoranti sono quasi sempre pieni (e, di solito, più sono cari più è difficile trovare posto); eppure la nostra è la città italiana col maggior afflusso di turisti «commerciali», in teoria quelli che non si preoccupano molto per 10-20 euro in più sul conto. E allora perché? Forse perché a Milano, per i giovani, la vita è più dura che altrove, non solo in cucina. Gli affitti, o il prezzo d'acquisto, degli immobili per chi vuole avviare un'impresa sono terribilmente alti; le banche, con i chiari di luna attuali, non prestano soldi tanto facilmente. Forse è un problema che riguarda tutte le grandi città, visto che i ristoranti dei baby chef si trovano in paesini come Montescano, Pavia di Udine, Quarto d'Altino, Oderzo, Grumo delle Abbadesse e via così.
Qualunque sia il motivo bisogna trovare il sistema per incoraggiare i giovani (il discorso, evidentemente non riguarda solo i baby chef) a «lanciarsi» anche a Milano, bisogna fare in modo che ci siano meno ostacoli sulla loro strada.

È inutile invitare chi si affaccia al lavoro ad avere coraggio e intraprendenza se coraggio e intraprendenza non bastano. È necessario che qualcuno (le istituzioni?) dia loro una mano, perché Milano non vuole diventare un paese per vecchi.

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