Goberti, il nostro modo di essere nel mondo

La sua città ricorda il pittore scomparso due anni. fa La corda, cioè la linea, era per lui l'essenza dell'arte

Goberti, il nostro modo di essere nel mondo

Gianfranco Goberti (Ferrara, 1939-2023) è stato il solo pittore ferrarese della sua generazione che non si sia compiaciuto della grandezza della sua città e della leggendaria tradizione artistica ferrarese. Se la teneva dentro; ma lui voleva parlare il linguaggio del suo tempo, sentirsi dentro la storia che gli era toccato vivere, senza gloriarsi d'altri. Era riservato e ferrarese d'indole, ma parlava con gli americani, con gli inglesi, con francesi contemporanei, visti nella impresa, senza precedenti, di Palazzo dei Diamanti. Era refrattario al rifugio della provincia dove pure si era formato. E andava oltre, in perpetua fuga, con la mente libera e con gli occhi aperti sul mondo. Perché Goberti sentiva il suo tempo come se il suo corpo non avesse radici ma solo pensieri, essendo al centro del mondo, in qualunque punto del mondo. La sua Ferrara non era un luogo fisico, ma uno stato d'animo, come per Giorgio de Chirico, uno dei suoi punti di riferimento. Goberti è stato anche il solo della sua generazione ad aver inteso la sconfinata lezione, in un secolo breve, di Magritte e Domenico Gnoli, maestri impareggiabili e solitari filosofi prima che pittori; e, a loro insaputa, ferraresi, come fu lo stesso, immemore De Chirico fino agli ultimi anni rimeditando ai suoi giorni a Ferrara tra il 1915 e il 1918. Nessun luogo, non la Grecia, non Parigi, era così dentro di lui. Altro luogo interiore non c'è, come sapeva anche Goberti.

Non poteva che essere il maestoso simbolo di Ferrara, il Castello estense, il luogo dove allestire la necessaria, e da me fortemente voluta, retrospettiva che documenta l'originalità e la sapienza formale dell'opera di Gianfranco Goberti attraverso oltre quaranta lavori - tra dipinti, esperienze extra-pittoriche e videotapes - eseguiti nell'arco di più di mezzo secolo di attività, dai Tre volti e L'immagine del 1966, a la Poltrona gialla del 2019. È la prima importante, e completa, mostra organizzata dopo la sua scomparsa, e cade esattamente quarant'anni dopo quella, voluta da Franco Farina, nella Sala d'Arte Benvenuto Tisi di Palazzo dei Diamanti, dove furono presentate le sue (allora recenti) Corde eseguite nella prima metà degli anni Ottanta, tra cui la Corda grande e corda azzurra, del 1984, che oggi abbiamo la possibilità di riammirare. Nel saggio che scrissi nel relativo catalogo, sottolineavo, in particolare, che per Goberti la corda è, come il santo per un pittore del Quattrocento, un pretesto per la ricerca formale. E che in natura è quanto di più vicino c'è alla linea, che a sua volta è l'essenza stessa del disegno; e che dunque la riflessione sulla corda diventa la riflessione sul disegno, e quindi, sull'arte. L'opera d'arte non può lasciarci indifferenti, deve dialogare con le nostre conoscenze, le nostre convinzioni per arricchirle ed eventualmente modificarle. Ritengo che la pittura di Gianfranco Goberti riesca a farci riesaminare il nostro modo di essere nel mondo. Tra i suoi soggetti prediletti, oltre alle corde, troviamo i tessuti grezzi, le stoffe delle poltrone e delle camice, perlopiù inquadrati in particolari ingrandimenti, come in una macrofotografia. Chi ammira ad esempio il Lavaschiena del 1990 non tarderà a riconoscere in esso l'evidente matrice di Domenico Gnoli. Goberti riproduce con meticolosa precisione le trame strutturali di oggetti d'uso comune, riuscendo quasi in esiti più realistici nella resa dell'irregolarità della materia di quanto non facesse lo stesso Gnoli.

L'arte di Goberti è l'elemento che dovrebbe suscitare nuovo interesse nel nostro modo di vedere e di convivere con ciò che ci sta attorno? Forse la sua abilità tecnica? Risulta assolutamente imprescindibile dalle intenzioni dell'artista la capacità riproduttiva che è solo lo strumento operativo di un discorso di più ampia portata. In realtà, il tema dominante della pittura di Goberti è il rapporto tra l'arte e ciò che tradizionalmente è stato ritenuto il suo oggetto per antonomasia, la natura. Più ci si sforza di riprodurre con la massima fedeltà possibile le cose che comunemente abbiamo davanti agli occhi, compatibilmente ai mezzi tecnici messi a disposizione dell'artista, più le cose riprodotte risultano estranee al loro contesto di origine. Il citato, grande Lavaschiena, ad esempio, è perfetto fino all'ossessione, incredibilmente simile nell'aspetto all'oggetto reale, addirittura più vero del vero. Eppure non ci sogneremo mai di scambiarlo per l'oggetto corrispondente. I quadri di Goberti sono una cosa, la realtà un'altra. Non solo. Più l'artista analizza nel dettaglio la struttura dell'oggetto, cercando di andare oltre i confini delle apparenze convenzionali, più l'oggetto ci risulta estraneo. Il fatto è che la riproduzione, nel momento stesso in cui si offre ai nostri occhi, si pone sempre in un campo concettuale differente, quasi contrastante rispetto alla natura, malgrado che da essa trovi diretta ispirazione. In questo campo, l'arte, come riproduzione della natura, è soggetta a due grandi leggi: quella formale, in quanto essa comunica attraverso forme che simulano le naturali, e quella psicologica, in quanto la semplice scelta di un oggetto (non solo la modalità espressiva preferita per la sua riproduzione) riflette preci-si stati d'animo, coscienza e mentalità dell'autore.

L'arte, insomma, ha sempre un suo linguaggio specifico e una sostanza umana anche quando vorrebbe mimetizzarsi nella natura. È questa la lezione, la revisione del nostro modo di essere nel mondo che ci propone Gianfranco Goberti. Vi sembra poco?

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