Golden share, Italia condannata: viola norme Ue

La Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per alcune norme comprese nel pacchetto Golden share: gli investitori non possono sapere quando queste regole possono scattare. Norma esercitata su Eni, Telecom Italia, Enel e Finmeccanica

Golden share, Italia condannata: viola norme Ue

Bruxelles - La Corte di giustizia europea ha oggi condannato l’Italia per alcune norme comprese nel pacchetto detto Golden shares varato nel 2004 in quanto la loro applicazione è strutturata in maniera tale per cui eventuali investitori nelle aziende che hanno nel loro statuto queste regole (Eni, Telecom Italia, Enel e Finmeccanica) non possono sapere quando esse potranno scattare, il che è una limitazione che scoraggerebbe gli imprenditori che volessero investire.

La condanna di Bruxelles La Commissione aveva chiesto alla Corte di dichiarare che il decreto del 10 giugno 2004, che definisce i criteri di esercizio dei poteri speciali, previsti dal decreto 332/1994, che stabiliva le norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni, l’Italia è venuta meno agli obblighi cui è vincolata in forza del Tratto Ce. I poteri speciali messi sotto accusa sono: l’opposizione all’assunzione da parte di investitori di partecipazioni rilevanti, che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto, l’opposizione alla conclusione di patti o accordi tra azionisti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto, il veto all’adozione delle delibere di scioglimento delle società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri speciali, la nomina di un amministratore senza diritto di voto.

I motivi della sentenza "Una di queste clausole - spiega la Corte - è stata inserita negli statuti di Eni, Telecom Italia, Enel e Finmeccanica". A norma del decreto del 2004, dice la Corte "i poteri speciali sono esercitati esclusivamente ove ricorrano motivi di interesse generale (ordine pubblico, sicurezza pubblica, sanità pubblica e alla difesa) nel rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione. Devono ricorrere circostanze di grave pericolo di carenza di approvvigionamento nazionale minimo di prodotti petroliferi ed energetici, di materie prime e di beni essenziali alla collettività, nonché di servizi di telecomunicazione e di trasporto di servizi pubblici, pericoli per la difesa nazionale, la sicurezza militare, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, emergenze sanitarie". Secondo la Commissione, e la Corte le ha dato ragione, "la violazione dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali consiste nel fatto che il decreto del 2004 non specifica sufficientemente i criteri di esercizio dei poteri speciali; e gli investitori non possono conoscere le situazioni in cui detti poteri verranno utilizzati. Ciò scoraggiarerebbe gli investitori che intendono stabilirsi in Italia al fine di esercitare un’influenza sulla gestione delle imprese. Inoltre esso va oltre quanto necessario per tutelare gli interessi pubblici che ne costituiscono l’oggetto".

I poteri dello Stato La Corte nella sua sentenza opera una distinzione a seconda che i criteri siano applicati ai poteri di opposizione dello Stato all’acquisizione di partecipazioni e alla conclusione di patti tra azionisti o al potere di porre un veto a talune decisioni della società:
Poteri di opposizione Il rispetto del principio di proporzionalità, argomenta la Corte, esige, in primo luogo, che i provvedimenti adottati siano atti a conseguire gli obiettivi perseguiti. "L’applicazione dei criteri controversi, considerati in relazione all’esercizio dei poteri di opposizione, non è atta a conseguire gli obiettivi perseguiti nel caso di specie a causa della mancanza di un nesso tra detti criteri e tali poteri". Durante l’udienza, l’Italia ha evocato l’eventualità che un operatore straniero legato ad un’organizzazione terroristica tenti di acquisire partecipazioni in società nazionali in un’area strategica; o la possibilità che una società straniera che controlli reti internazionali di trasmissione di energia e che, in passato, si sia avvalsa di detta posizione per creare gravi difficoltà di approvvigionamento a paesi limitrofi acquisisca azioni in una società nazionale. Queste situazioni potrebbero giustificare un’opposizione all’acquisizione. "Tuttavia - rileva la Corte - il decreto del 2004 non menziona alcuna circostanza specifica ed obiettiva. Al contrario sebbene i criteri riguardino diversi tipi di interessi generali, essi sono formulati in modo generico ed impreciso. Inoltre, l’assenza di un nesso tra tali criteri e i poteri speciali ai quali si riferiscono accentua l’incertezza in ordine alle circostanze in cui i medesimi possono essere esercitati e conferisce un carattere discrezionale a detti poteri tenuto conto del potere discrezionale di cui dispongono le autorità nazionali per il loro esercizio. Un siffatto potere discrezionale è sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti".
Potere di veto Per la Corte il decreto del 2004 non contiene precisazioni sulle circostanze in cui i criteri di esercizio del potere di veto possono trovare applicazione. "In mancanza di precisazioni sulle circostanze concrete che consentono di esercitare il potere in parola - dice la Corte - gli investitori non sanno quando tale potere di veto possa trovare applicazione. e i criteri da esso fissati non sono dunque fondati su condizioni oggettive e controllabili".

Infine, l’affermazione secondo cui il potere di veto deve essere esercitato soltanto in conformità con il diritto comunitario e la circostanza che il suo esercizio possa essere soggetto al controllo del giudice nazionale "non possono rendere il decreto del 2004 compatibile con il diritto comunitario", sentenzia la Corte stabilendo che l’Italia ha violato le normative comunitarie. 

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