
Di fronte a quel che è accaduto, un'intervista chiesta, risposte fornite, parole addolcite e infine cancellate, non ci sono giri di parole possibili: si tratta di censura bella e buona. Mi spiego. Le premesse erano chiare: il Corriere invita il ministro Giuli proprio perché replichi all'editoriale "avvelenato" firmato da Galli della Loggia, critico sul ruolo della cultura di destra. E il ministro accetta, risponde, addirittura acconsente allo smorzamento di toni e termini adoperati, come "perditempo" e "poltrona di lusso", allo scopo di non offendere l'editorialista, come gli suggerisce un redattore di via Solferino. Poi, puff! Qualcuno decide di non pubblicare l'intervista resa e stesa, senza nemmeno informare l'intervistato di questa scelta, senza fornire insomma alcuna spiegazione. Così Giuli, uomo che ama la verità, racconta il misfatto. E fa bene, anzi no, fa benissimo. Il ministro ha compiuto quel che gli si richiedeva, è stato disponibile, gentile, ha risposto alle domande, tutte, e poi è stato fatto fuori. Tagliato. Censurato, direi, per essere corretti. Punto. Se questa non è censura, non so come altro chiamarla. E consentitemi di spendere due parole su Alessandro, che conosco bene, giornalista brillante di Libero, penna raffinata, cronista pungente, professionale, cronista che conosce il senso profondo del nostro mestiere, e lo sostengo con cognizione di causa dal momento che l'ho visto all'opera e "diretto". Quando Giuli mette la firma è convinto, non chiama gli intervistati per indurli a ritrattare, non cancella quello che non gradisce, non cerca di convincere nessuno, non recita la parte. Anche questo infastidisce l'establishment col vezzo del "senso unico". Giuli ha reagito davanti a qualcosa non di cui egli è stato vittima, bensì davanti a qualcosa di disonesto che non gli è piaciuto. Dunque ha pubblicato le sue risposte sul suo canale, ha denunciato le scorrettezze, si è difeso. E questo non è tollerato da chi preferisce che talune voci rimangano censurate sotto il nome di "correzioni editoriali". Dietro, c'è qualcosa di più grande: l'egemonia ideologica di una certa cultura. Quella per cui soltanto opinioni già bollate come "legittime" devono e possono comparire sui giornali.
È uno schema rituale: chi ha potere interviene, stabilendo cosa possa e debba essere pronunciato e, quando qualcuno osa spingersi oltre, anche moderatamente, viene cancellato con il correttore. E tutto questo avviene sotto la maschera elegante del "non ci sembrava abbastanza su un punto X". Bene: Giuli ha denunciato codesta pratica sempre più diffusa, adoperata proprio da chi dice di garantire il pluralismo e da chi dovrebbe garantirlo, ossia gli organi di informazione. Ebbene sì, di censura si tratta, lo ripeto ancora e ancora, con fermezza e convinzione. E quella che nominiamo "cultura della sinistra" (leggi: l'intolleranza del disaccordo) continua a proliferare. Si ammorbidiscono e si edulcorano le parole, si richiedono correzioni, ci si affanna a evitare il font discordante.
Ma, alla fine, se l'articolo neppure esce, il pluralismo è una farsa.Giuli non è un perditempo. Ma il tempo glielo hanno fatto perdere. Qualcuno dovrebbe imparare ed accettare che la stampa è più del buffetto del redattore capo. È la voce di chi non si deve nascondere.