C’è un numero che mi intimidisce per la sua aura sacra: mille. Non nominarlo invano è un principio che mi porto dietro dalle scuole elementari. Da allora per me «i Mille» sono «quelli» di Garibaldi, la cui maggioranza imparai sin da allora fosse composta da bergamaschi, attirati dall’avventura e dalla promessa di sigari gratis.
Guai a trascinare quella cifra con le sue connessioni orobiche in campi profani, trasformandola in un pretesto per bilanci. Non ho perciò voluto cimentarmi, anche se mi prudevano i polpastrelli, con il traguardo raggiunto da Giorgia Meloni e ben richiamato dal Giornale come una tappa di mezza legislatura stravinta dal nostro premier. Un bilancio che è stato riconosciuto come positivo dalla stampa internazionale, persino da quella tradizionalmente ostile. Ieri è stato ricordato opportunamente che con la sua guida l’Italia ha guadagnato un milione di posti di lavoro, una promessa che a Berlusconi fu ricacciata in gola dal ribaltone determinato dalla Procura di Milano di concerto con Scalfaro.
Poi però c’è una notizia che mi ha fatto mettere da parte prevenzioni scaramantiche o privilegi garibaldini. Essa riguarda una diceria immortale che ci siamo bevuti pure in questa ricorrenza meloniana. Riguarda insomma le tasse. Non esiste trasmissione o articolo sul tema che non costringa tutti a sorbirci la lezioncina sul primato italiano nella vessazione dei contribuenti. Invano la Meloni ha abbassato grazie a Giorgetti l’aliquota Irpef per i ceti medi? Ah sì? Immediatamente il Corriere ha spiegato che si trattava di una «beffa» e al seguito, ribadendo o tacendo, tutti si sono accodati a questa lettura del contatore fiscale.
Le tasse sarebbero pertanto il miracolo meno riuscito della Meloni. C’è un motto di Niccolò Machiavelli che individua la regola del Principe perfetto: «Governare è far credere». Meloni in questi mille giorni ne è stata aliena. «Far credere», rovesciando le parti, è stata la mazza ferrata impugnata dagli avversari qualunque sia il campo in cui la nostra premier si è adoperata: la sinistra, controllando gli ingranaggi dei media, si è impegnata a far credere il contrario della realtà.
Deformando e occultando le nozioni basi su cui dovrebbe reggersi la consapevolezza della condizione privilegiata che l’Italia ha conseguito nell’età di Giorgia. La quale, alla faccia dei conformismi mediatici ostili, riesce comunque ad essere in cima al gradimento dei cittadini e così la sua maggioranza che beneficia anch’essa, talvolta immeritatamente, di quel dono misterioso che si chiama intuizione popolare, ed è sparso a piene mani dalla brava gente su Giorgia Meloni. C’è un’empatia reciproca, invece di consumarsi si rinsalda.
Su un punto solo permane una bolla di mistificazione, intatta anche tra i sostenitori del governo: il primato infame delle tasse italiche.
Be’, a favore della mia prediletta, sono in grado di far scoppiare questa balla fin qui coriacea. Seguitemi e un lieve godimento lo garantisco.
Sfoglio “Le Figaro”, quotidiano conservatore francese, vicino alle posizioni degli ex-gollisti, molto più che a Le Pen propenso a magnificare in fatto di armi e guerre le posizioni di Macron.
Leggo questo titolo sulla prima pagina di venerdì del giornale parigino: “Pressione fiscale: la Francia, sempre campionessa”. L’editoriale è dedicato al tema e parla di “podio delle lacrime” assegnato ai galletti: “Abbiamo superato tutti i Paesi dell’Unione europea quanto a imposte e a quota di salario che finisca allo Stato: La fiscalità sul salario francese medio tocca il 54,4%.
Un record”. Ma non era l’Italia la più tassata e la nostra busta paga (intendo di dipendenti e pensionati) quella più vampirizzata?
Balle. Il servizio di Julie Ruiz è documentato da una tabella e si basa sulla analisi dell’“Institut économique Molinari (Iem)”. Il cui direttore generale, Nicolas Marques, comunica che “giorno della libertà fiscale e sociale”, per i suoi connazionali è scattato quest’anno il 18 luglio.
Significa che prima di allora un dipendente, celibe, dotato di un salario medio, insomma uno qualsiasi, ha lavorato interamente per le tasche dell’erario. Al secondo posto della triste classifica si colloca il cittadino belga, il quale ha perso al fotofinish, per due giorni appena: costui infatti ha nutrito le casse pubbliche fino al 16 luglio, il terzo gradino tocca invece al contribuente austriaco che si è visto prelevare tutti i suoi redditi maturati al 14 luglio. E La Germania? È quarta: la sua data di liberazione è anch’essa in luglio, e precisamente l’8. Siamo intorno al 52 per cento di salasso della busta paga o della pensione media.
“Le Figaro” stabilisce una sorta di gradino tollerabile, che è quello del mese di giugno, laddove cioè la tassazione non supera la soglia del 50 per cento. Ci sono Spagna, Polonia, Romania, Croazia, Finlandia.
Ed è qui che, in testa al gruppone, troviamo l’Italia, quinta in classifica generale (30 giugno, cioè al 49,9 per cento di prelievo), comunque dietro le prime due potenze economiche della Ue.
Accontentarsi? No di certo.
Ma almeno zittiamo i catastrofisti.
Siamo un po' più liberi anche dalle tasse
Non esiste trasmissione o articolo sul tema che non costringa tutti a sorbirci la lezioncina sul primato italiano nella vessazione dei contribuenti. Invano la Meloni ha abbassato grazie a Giorgetti l’aliquota Irpef per i ceti medi? Ah sì?
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