Guardateli bene in faccia Caccia a questi criminali

I delinquenti che hanno devastato la Capitale hanno un volto, un nome e un cognome. Altro che mercenari stranieri, sono i nostri vicini di casa

Guardateli bene in faccia 
Caccia a questi criminali

Guardateli in faccia, guardateli bene. Sono i teppisti che sabato hanno scatenato la guerriglia nel centro di Roma. Sono il volto nascosto della violenza: un volto che oggi il Giornale è in grado di svelare, grazie alla collaborazione di quei tanti che non si rassegnano all’idea che l’orda dei barbari resti impunita. È evidente: nessuna indignazione giustifica l’assalto a una camionetta dei carabinieri, nessuna protesta può dare l’alibi alla distruzione di banche e di vetrine, nessun corteo può coprire una simile devastazione della città. E dunque svelare chi si nasconde dietro a quei caschi e a quei cappucci è più che un diritto di chi fa informazione. È un nostro dovere.

Guardateli in faccia, dunque, guardateli bene. Oggi scopriamo che i criminali hanno un nome e un cognome, magari i riccioli biondi, un braccialetto vezzoso e due occhi d’angelo. Fissateli bene quegli occhi e non dimenticateli. Possono essere quelli di un vicino di casa, un ragazzo incontrato per caso sul tram, uno dei partecipanti alle consuete manifestazioni no Tav o no Cav. Guardateli in faccia, guardateli bene: vi renderete conto che il teppismo non è una variabile impazzita, non è un fattore esterno, un incidente di percorso favorito da chissà quali oscure forze del male.
Sotto il casco o dentro il cappuccio, ci sono ragazzi uguali a tutti gli altri. Solo che portano un bavaglio sulla bocca e la violenza fra le mani.

«Black bloc» è una parola fuorviante, è una parola che distrae. «Black bloc» è una truffa linguistica, un inganno sonoro. Uno dice «black bloc» e pensa che i violenti siano un pugno di mercenari stranieri, tedeschi o irlandesi ubriachi di birra, corpo estraneo rispetto al movimento italiano, indignato sì, ma pacificamente. La tentazione è circolata forte fin dal primo momento nelle cronache del sabato selvaggio: ci sono i manifestanti, che suono buoni; e poi ci sono degli alieni piombati lì in mezzo per caso, agenti della provocazione, gente sconosciuta, arrivata da chissà dove.
Trattasi, evidentemente, di falsificazione della realtà. La situazione è tutt’altra. «Quei ragazzi incappucciati che hanno fatto gli scontri sono i nostri figli, i nostri fratelli minori», ha detto per esempio Andrea Alzetta detto «Tarzan», militante del collettivo «Action» e consigliere comunale di Roma.

E ieri uno dei siti internet del movimento (Militant-blog) spiegava: «In piazza non c’erano buoni e cattivi, non c’erano “black bloc” infiltrati, poliziotti provocatori, gli ultras fascisti o gli extraterrestri venuti da Marte a rovinare il corteo. C’era un pezzo importante del nuovo proletariato urbano che si rende disponibile al conflitto, alla lotta».

Questa è la verità: i campioni olimpionici del lancio dell’estintore, gli sfasciatutto con il casco in testa, i violenti che si scatenano in danze forsennate davanti alle fiamme delle molotov sono parte del movimento, sono i giovani di casa nostra, i criminali della porta accanto. Incappucciati, ma non sconosciuti. Per questo vanno guardati in faccia. Per rendersi conto che non sono alieni, ma «figli» o «fratelli minori».

Purtroppo la violenza abita a casa nostra: dobbiamo farci i conti, non possiamo risolverla con un biglietto di sola andata per Dublino o Berlino. Proprio così: con buona pace delle anime belle, propense a ripetere antichi errori, non esistono «sedicenti indignados». Esistono indignados violenti e altri no, esistono persone che esprimono la loro protesta in modo civile e altri che invece la esprimono con le mazze e i picconi. Certo: non bisogna generalizzare. Ma per non generalizzare bisogna individuare, denunciare, identificare. Solo così si difende la vera libertà di manifestare.

Tocca spiegarglielo agli incappucciati viziati, tocca dirglielo ai delinquenti mascherati che pensano di annegare le loro colpe dentro il ventre molle del corteo: la responsabilità è individuale. I criminali hanno un nome e un cognome: bisogna conoscerlo; hanno un volto: bisogna mostrarlo.

Perché se un teppista viene arrestato allo stadio vengono subito diffuse le foto, e invece di questi ancora si fatica a conoscere le carte d’identità? Perché ogni mattina le Questure distribuiscono i dati e le immagini dei criminali arrestati per furto o spaccio, e invece di questi non dovremmo sapere nulla? C’è uno strano cordone protettivo attorno ai criminali di piazza, quasi una forma di rispetto, una prudenza che non è solo

eccessiva ma anche dannosa.
Perché finché non saremo in grado di guardare in faccia la violenza di piazza non sapremo riconoscerla. E senza riconoscerla, tutte le chiacchiere sono vane, perché non la sconfiggeremo mai.

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