
Il conflitto tra Israele e Iran ha acceso un’attenzione planetaria, ma dietro le quinte il vero regista è un solo generale: Erik Kurilla, comandante del Comando Centrale americano (CENTCOM).
Chi è il generale Kurilla
Kurilla, aka "il Gorilla", ha messo in campo una strategia ferrea, ottenendo risorse militari in modo rapido e sistematico. Kurilla dispone ormai di un accesso diretto alla linea politica più alta: con più incontri presidenziali dietro le quinte rispetto ai suoi colleghi, sta imprimendo una direzione netta all’azione statunitense. Le fonti descrivono una pressione silenziosa ma costante: ogni richiesta — portaerei aggiuntive, caccia F‑22, F‑35, F‑16, difese antiaeree — ha trovato accoglienza nel Pentagono. Molto di quanto ha proposto, insomma, è già realtà. Sotto la sua guida gli Stati Uniti hanno sostenuto Israele nella sua risposta all'attacco del 7 ottobre. Da allora si è recato ripetutamente Israele per coordinare gli aiuti americani alle operazioni a Gaza e in Libano e per rafforzare le difese del Paese di fronte agli attacchi iraniani dello scorso anno.
Architetto della strategia americana
Con un’influenza rara per un militare in servizio, Kurilla si è trasformato nell’architetto di fatto della risposta americana alla crisi. Nonostante le promesse del Segretario alla Difesa Pete Hegseth di riaffermare il primato del controllo civile sulla macchina militare, è proprio sotto la sua egida che Kurilla ha guadagnato un’autonomia operativa di primo piano.
Fonti vicine al Pentagono descrivono il generale come determinato, assertivo e capace di ottenere l’approvazione per quasi tutte le sue proposte — dal rafforzamento della presenza navale nell’area fino al dispiegamento di jet di quinta generazione e sistemi di difesa aerea avanzata. Questa settimana, il Pentagono ha ordinato il trasferimento di una seconda portaerei nella regione, segnando un riposizionamento strategico che sottrae risorse ad altri teatri, in particolare al Pacifico, e rifocalizza l’attenzione sul Golfo Persico.
Accesso diretto a Trump
La posizione di Kurilla gli consente un accesso diretto al presidente, e a differenza di altri generali, non ha esitato a esercitare pressione politica per ottenere risorse. La sua prossimità a figure di peso della Camelot trumpiana, come Mike Waltz, ex consigliere per la sicurezza nazionale, rafforza la sua posizione. Con il mandato alla guida del CENTCOM prossimo alla scadenza, Kurilla sembra intenzionato a lasciare un’impronta indelebile sulla postura strategica americana nella regione.
All’interno del Pentagono non mancano però tensioni. Alcuni funzionari hanno espresso preoccupazione per la rapidità con cui la linea del generale è stata avallata, in particolare di fronte alle raccomandazioni più prudenti arrivate da altri alti gradi, come il generale Dan Caine, capo di stato maggiore congiunto, e Elbridge Colby, architetto della strategia del Pentagono. Tuttavia, qualsiasi divergenza è stata limata pubblicamente da fonti ufficiali, che insistono su una visione condivisa.
Veterano, decorato, diretto
Kurilla, tutt’altro che incline a media e diplomazia, gode di una reputazione operativa consolidata. Veterano decorato della guerra in Iraq, ferito in combattimento e insignito della Stella di Bronzo, è visto da alcuni come la personificazione dell’aggressività strategica che l’attuale amministrazione sembra privilegiare. Esperto di guerra e avverso ai media, Kurilla è noto per avere un carattere in molte occasioni irritante. Il suo coraggio però non è messo in dubbio neanche dai critici: nel 2005 ha guidato le truppe americane durante uno scontro al fuoco al culmine della guerra in Iraq nonostante fosse stato colpito tre volte. “Fisico imponente, linguaggio diretto, determinazione assoluta: è il tipo di generale che la Casa Bianca attuale tende ad ascoltare”, osserva un ex funzionario.
Dietro le quinte, la sua capacità di presentare scenari militari convincenti, rafforzata da un linguaggio strategico efficace, ha reso difficile per molti interlocutori — anche civili — opporsi. “Sa come far pesare il CENTCOM al tavolo delle decisioni”, conferma Dan Shapiro, già capo delle politiche mediorientali del Pentagono.
I tre scenari di Kurilla
Negli ultimi giorni, il Pentagono ha rafforzato la sua impronta nel teatro mediorientale: una seconda portaerei, la USS Nimitz, è stata trasferita dal Mar Cinese Meridionale al Golfo, affiancando la USS Carl Vinson già operativa nella regione. Con loro, uno squadrone misto di caccia avanzati: F-22, F-35 e F-16. La mossa segna una chiara riallocazione di priorità strategiche, con il Medio Oriente che torna al centro, anche a discapito del fronte indo-pacifico. Questo rafforzamento è parte di una più ampia pianificazione elaborata proprio da Kurilla in stretto coordinamento con Israele già da febbraio.
Il generale aveva delineato tre possibili scenari di intervento militare: il primo, un appoggio logistico e informativo statunitense a una missione israeliana autonoma; il secondo, operazioni congiunte tra i due Paesi; il terzo, un attacco guidato direttamente dagli Stati Uniti, con Israele in un ruolo di supporto. Quest’ultima opzione avrebbe incluso bombardieri strategici B-1 e B-2, aerei cargo e missili da crociera lanciati da sottomarini in immersione.
Mentre il Pentagono elaborava questi piani, sul versante diplomatico l’amministrazione Trump — per bocca del consigliere Robert Witkoff — portava avanti trattative indirette con Teheran, grazie alla mediazione dell’Oman. Fino a quando, a Tel Aviv, la pazienza ha cominciato a scarseggiare.