È bastato un passaggio, una manciata di parole, per far tremare la Francia. Quando il generale Fabien Mandon ha evocato la possibilità di “perdere i propri figli” in un futuro scontro con la Russia, molti hanno avvertito un gelo improvviso: non quello delle trincee, ma quello che entra nelle case, nelle famiglie, nei pensieri più intimi di un Paese che credeva impossibile tornare a parlare di sacrifici di sangue.
Il riferimento è arrivato durante il Congresso dei Sindaci, dove il Capo di Stato Maggiore delle forze armate ha tracciato un quadro fosco delle ambizioni russe e della fragilità europea davanti a un mondo che torna a muoversi secondo la logica dei blocchi. Nel suo intervento, sostenuto da una riflessione più ampia sulla deterrenza e sulla necessità di rafforzare l’apparato difensivo nazionale, Mandon ha sostenuto che la Francia deve ritrovare “la forza d’animo di soffrire per proteggere ciò che siamo”. E ha parlato di un Paese a rischio se non fosse pronto ad affrontare la possibilità di sacrifici, umani o economici, nel caso in cui la produzione militare dovesse tornare a essere prioritaria.
Il contesto è quello di una crescente pressione strategica. Nelle analisi presentate ai sindaci, il generale ha insistito sul fatto che la Russia considera i Paesi dell’Unione Europea e la Nato come avversari esistenziali e si starebbe preparando a un confronto entro la fine del decennio. È un linguaggio insolito nella vita pubblica francese, e tanto più sorprendente perché rivolto a un pubblico istituzionale ma civile, che non si aspettava una simile franchezza da parte del vertice militare.
L’effetto è stato immediato. Nel Parlamento e sui media, le parole di Mandon hanno provocato un’ondata di reazioni indignate. La sinistra radicale ha denunciato la “retorica bellicistica” e ricordato che un militare non può anticipare scenari di guerra senza mandato politico; la destra nazionalista ha accusato il generale di allarmismo e di interventismo fuori misura. Anche molti sindaci presenti hanno ammesso di essere rimasti turbati, parlando di un passaggio che sposta il discorso pubblico dai temi della difesa a quelli della mortalità in guerra, un terreno estremamente sensibile per una nazione segnata dalle memorie della Prima e della Seconda guerra mondiale.
"Voglio esprimere il mio totale disaccordo con il discorso del capo di stato maggiore delle Forze armate - ha scritto immediatamente su X il leader de La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon - non sta a lui invitare i francesi a preparazioni alla guerra che nessuno ha deciso". Anche per Fabien Roussel, leader del Partito comunista, la risposta al generale è "NO!". "Sì alla difesa nazionale - ha scritto su X - ma non al discorso bellico insopportabile". Anche all'estrema destra, il rifiuto è totale: "il generale Mandon non ha la legittimità" per parlare in questo modo, ha denunciato il vicepresidente del Rassemblement National, Sébastien Chenu, aggiungendo che "se il presidente della Repubblica gli ha chiesto di farlo, è ancora più clamoroso".
La portavoce del governo, Maud Brégeon, è intervenuta rapidamente per raffreddare la tempesta. Ha spiegato che il generale si riferiva ai soldati francesi già in servizio, giovani tra i 18 e i 27 anni che operano in diversi teatri esteri e che, in alcuni casi, hanno già pagato con la vita il loro impegno. Ha poi voluto marcare un punto: “I nostri figli non andranno a combattere e morire in Ucraina”. Un chiarimento netto, volto a interrompere qualsiasi lettura di mobilitazione generale, e a ricordare che ogni decisione di inviare truppe in zone di guerra spetta al governo e al Parlamento.
Lo scontro, però, ha messo in luce una tensione profonda. Da un lato, l’alto comando militare invoca una presa di coscienza della gravità del momento storico e chiede alla Francia di prepararsi psicologicamente. Dall’altro, la società civile sembra respingere l’idea stessa che la guerra possa tornare a lambire il territorio europeo. Questa frattura emerge proprio mentre la Francia ha incrementato la spesa per la difesa, varando un bilancio che supera quelli degli anni precedenti e che punta a rafforzare capacità industriali, armamenti e mezzi per la deterrenza.
Le domande che restano sul tavolo sono quelle che da mesi attraversano le capitali europee: fino a che punto bisogna prepararsi a scenari estremi? Come conciliare il linguaggio della fermezza con la sensibilità di opinioni pubbliche che non
vogliono sentir parlare di guerra? E dove si colloca la Francia, oggi, fra l’obbligo di difendere l’Europa e la paura, condivisa da molti cittadini, che la storia possa tornare a chiedere sacrifici che si credevano superati?