
nostro inviato a Sharm-el-Sheikh
Mentre bulldozer e ruspe hanno iniziato a rimuovere i primi cumuli di macerie a Gaza, in Egitto proseguono i preparativi per il vertice che oggi pomeriggio a Sharm el-Sheikh formalizzerà la firma dell'accordo di pace. Un summit fortemente voluto da Donald Trump, organizzato dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e a cui prenderanno parte circa una ventina di Paesi. A partire dai tre «mediatori» che hanno avuto un ruolo chiave nel far sedere al tavolo Israele e Hamas: il Quatar, lo stesso Egitto (che co-presiede con gli Usa la riunione) e la Turchia. E poi ovviamente Giordania, Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. Ma anche Canada, Giappone e India. Oltre ad alcuni Pesi europei, tra cui l'Italia, con Giorgia Meloni che atterrerà in Egitto questa mattina. Attesi anche il presidente francese Emmnuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il primo ministro britannico Keir Starmer e il premier spagnolo Pedro Sanchez. Al «Summit per la pace di Sharm-el Sheikh» (questo il titolo del vertice voluto da Usa e Egitto) non ci saranno invece né Israele né Hamas o l'Anp. «Nessun funzionario israeliano parteciperà», ha fatto sapere ieri il portavoce del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. E non ci sarà neanche l'Iran, invitato da Trump nella speranza che la cosiddetta «fase 2» del piano di pace possa portare ad allargare gli Accordi di Abramo (firmati durante il suo primo mandato) anche a Teheran. Che però, tramite l'agenzia di stampa iraniana Tasnim, conferma sì di essere stata invitata ma fa sapere che non parteciperà al vertice.
L'appunto con la storia - anche se solo il tempo potrà dirci quale sarà la reale portata di quella che il ministro degli Esteri Antonio Tajani ancora definisce una «tregua fragile» - è dunque per oggi pomeriggio tra i resort assolati di Sharm el-Sheikh. L'Air force one atterrerà in Israele questa mattina, con Trump che prima incontrerà a Tel Aviv le famiglie dei 20 ostaggi di Hamas che dovrebbero essere liberati prima del summit e poi parlerà alla Knesset, il Parlamento israeliano. Dopodiché volerà in Egitto per la firma del piano di pace. Che nella testa del presidente americano ha come punto di arrivo l'allargamento degli Accordi di Abramo ad altri Paesi arabi.
Un percorso solo agli inizi e ancora lungo. Con l'Italia che vuole un ruolo nel processo di pace e quasi certamente lo avrà. Merito dei suoi storici rapporti con i Paesi della regione (sia sotto il profilo diplomatico che dell'intelligence), ma anche della postura tenuta da Meloni che anche nei momenti in cui i negoziati sembravano lontanissimi dal chiudersi ha sempre sostenuto la linea di Trump (e chissà che oggi i due non possano aver un incontro a margine del summit).
Sul fronte italiano, per altro, la giornata di oggi potrebbe sbloccare o quantomeno accelerare un dossier piuttosto complicato come quello del riconoscimento della Palestina. Tema sensibile, sia perché buona parte dei Paesi europei e occidentali lo ha fatto (Parigi e Londra in primis), sia perché c'è comunque una corposa spinta dell'opinione pubblica. Meloni, peraltro, fino a ieri si è sempre detta d'accordo con l'obiettivo dei «due popoli e due Stati», ritenendo però la tempistica del riconoscimento della Palestina (fatto con l'opposizione di Israele) non utile alla buona riuscita dei negoziati. Il fatto che oggi verranno suggellati con la firma di Trump cambia lo scenario. E probabilmente avvicina il riconoscimento della Palestina anche da parte dell'Italia.
Il governo italiano, peraltro, è pronto a spendersi in Medio Oriente su un duplice fronte: quello umanitario e della ricostruzione e, qualora dovesse servire, quello militare. Sul primo, fanno sapere dalla Farnesina, l'attività è già intensa. I camion con gli aiuti, infatti, proprio in queste ore stanno ricominciando a rientrare a Gaza e il governo ha già predisposto di rafforzare l'operazione italiana «Food for Gaza» raccogliendo derrate alimentari con la collaborazione di Coldiretti, Confagricoltura e Confcooperative. Poi c'è il lato sanitario, ovviamente da affrontare insiseme alle istituzioni internazionali. Roma, però, avrebbe già dato la sua disponibilità ad aprire a Gaza ospedali italiani, iniziativa ovviamente da coordinare con i Paesi arabi e con l'Ue che dovrebbe dare un contributo decisivo per sostenere economicamente lo sforzo e renderlo duraturo nel tempo. Intanto, la Cooperazione allo sviluppo della Farnesina sta già firmando accordi fra il Bambino Gesù di Roma e gli ospedali italiani di Amman e Krak, in Giordania, per rafforzare l'assistenza ai feriti di Gaza. Per quanto riguarda la ricostruzione, invece, non è escluso che possano essere coinvolti colossi italiani come Webuild.
Sul fronte militare, invece, c'è la disponibilità a contribuire anche eventualmente con l'Esercito, ovviamente nell'ambito di una forza internazionale. Mentre già c'è il via libera all'ampliamento del contingente di Carabini che già opera a Gerico e presto tornerà al valico di Rafah (e che dovrebbe collaborare con la Gendarmerie francese e la Guardia civil spagnola).