Angelo Guglielmi, che era nato ad Arona, sponda piemontese del lago Maggiore, nel 1929, è morto l'11 luglio scorso a Roma. Ha fatto però in tempo a vedere le bozze del suo ultimo libro, che esce ora da Aragno (editore che adorava), frutto di una serie di incontri - al sabato mattina, nella sua casa romana - con Carmelo Caruso, firmissima del Foglio. Titolo - sul quale l'autore e il giornalista hanno discusso, riso e alla fine deciso insieme - L'avanguardia in bermuda, ossia «La formidabile avventura del Gruppo '63». E in effetti la storia di «quella piccola ganga di scrittori sperimentali», seppure anticipata dalla pubblicazione della raccolta di poesie I Novissimi curata da Alfredo Giuliani, comincia a Palermo nell'ancora caldo ottobre di quell'anno sfrontato, caotico, sovversivo: il '63.
Il libro, lo si deve dire, non si può perdere. Già l'incipit è da sottolineare: «Eravamo degli sprovveduti? Per niente. Avevamo ragione? Assolutamente sì. Abbiamo avuto fortuna? Mah. Il successo di pubblico non pensavamo di pretenderlo. Non si può insomma dire che la nostra piccola rivoluzione sia stata piccola. Violenta però mai»). In XXVIII capitoletti, un'ottantina di pagine, si racconta - meglio di qualsiasi manuale scolastico - cosa fu quel movimento («un incendio che per una manciata di anni ha seminato il panico nel mondo della letteratura»), perché nacque (per sperimentare nuove modalità espressive, così come il Barocco smantellò la tradizione del classico), con quali intenzioni («portare alla sbarra tutto quello che era stato scritto in quegli ultimi anni», denunciare la fine del romanzo, disprezzare «la lingua antica») e chi furono davvero i «sessantatreini» (che ebbero Anceschi come «impresario», Gadda come «profeta», la Feltrinelli come «casa», anche se alla fine Giangiacomo si capiva «che stava deragliando»...), da Balestrini a Manganelli.
Tra le pagine su cui mettere un post-it, la 33.
Dove Guglielmi ricorda quando recensì le Piccole vacanze di Alberto Arbasino elogiando il suo linguaggio, e finendo così: «Sa un po' di merda, come capita alla più raffinata cucina francese». Arbasino rimase felicissimo di quella frase.
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