No, cari «compagni» della sinistra milanese e nazionale. No, cari «amici» prodiani e della Margherita. No, non ci siamo proprio. Troppo facile, troppo comodo esecrare quello che è successo alla manifestazione del 25 aprile e scaricare le responsabilità sui soliti «ragazzacci» dei centri sociali.
Certo, i «ragazzacci» non hanno smentito la loro ideologia e il loro stile violento. Ci hanno insultati e spintonati e, cosa ben più grave, hanno bruciato le bandiere della Brigata ebraica. Ma il problema è ben più serio e radicato nella cultura di gran parte della sinistra. È la visione proprietaria e angusta di una storia che non è solo della sinistra, ma è la storia del popolo italiano, della liberazione dal nazismo e dal fascismo e di una giornata - il 25 aprile - che dovrebbe essere il nostro «independence day», da festeggiare con il tricolore. Quel tricolore che i «ragazzacci» mi hanno strappato dal collo, ma su cui una signora radical-chic che ben conosco ha sputato mentre mi insultava in nome di un mio (ormai datato a più di 15 anni fa) passato di sinistra.
Abbiamo manifestato dietro al gonfalone del Comune di Milano, città medaglia d'oro della resistenza: l'assessore Giulio Gallera con la fascia tricolore del sindaco, l'assessore Piero Borghini in rappresentanza della Regione Lombardia, insieme ad alcuni consiglieri comunali di maggioranza e opposizione. Il corteo ha sfilato tra due ali di popolo di sinistra urlante e insultante. Le parole più dolci che ho sentito erano «puttana», «traditori», «fascisti», «vergogna» e «andate via»: da porta Venezia a piazza Duomo è stato un coro. I gravissimi insulti al ministro Letizia Moratti e soprattutto a suo padre medaglia d'argento della Resistenza sono stati la ciliegina sulla torta.
Il problema politico (e ideologico) sta qui: c'è una parte di popolo italiano tuttora intollerante nei confronti di chi la pensa diversamente e soprattutto nei confronti di chi (come Borghini e io stessa) ha avuto nel corso degli anni un percorso che si è allontanato sempre più dalla sinistra. Nel mio caso questa intolleranza è stato uno dei motivi determinanti.
Sul palco in piazza Duomo ho stretto la mano a Luciano Violante e gli ho ricordato il discorso con cui al suo insediamento alla presidenza della Camera, nel 1996, aveva auspicato la riconciliazione con quei giovani che in buona fede avevano aderito alla Repubblica di Salò. Per me, che vengo da una famiglia di antifascisti, quel discorso era stato importante. Per quel popolo di sinistra che ieri mi ha insultata dandomi, tra l'altro, della fascista, evidentemente è più importante segnare, come fanno i cagnolini, il proprio territorio, quello dell'«antifascismo militante», cioè la violenza esercitata non tanto nei confronti di qualche stupido rigurgito di trentennio, quanto nei confronti del diverso da sé, di chi non è della parrocchia. Si tratta di una subcultura molto radicata, che nei prossimi giorni troverà espressione nella presidenza della Camera e nella presidenza del Consiglio.
Dovremo farci scortare dai carabinieri a casa tutti i giorni, come ieri?
(assessore ai Servizi sociali del Comune)
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