Giunge notizia che tale Salvatore Condemi, ritenuto colpevole di aver ammazzato la moglie a colpi di coltello da cucina, dopo lennesima lite con lex moglie, davanti alla figlioletta di soli nove anni, è stato condannato dalla Corte d'Assise di Reggio Calabria, a dodici anni di reclusione.
In questo caso, l'unica domanda che in modo martellante si presenta e che esige una risposta adeguata suona: la pena inflitta è commisurata alla gravità del delitto commesso? Si tenga conto di come la gravità del fatto non risieda soltanto nell'omicidio in sé, forse il più atroce dei delitti perché offende in modo primario la sacralità della vita, ma anche nelle circostanze che lo hanno accompagnato.
La prima. L'uomo, un capotreno, si è avventato sulla ex moglie, vale a dire su colei che ci è stata più vicino, colei con la quale si è condiviso ogni giorno, ogni pena ed ogni gioia, colei che ha generato i nostri figli: l'uxoricidio, insomma, è fra gli omicidi, già di per sé orribili, uno dei più orrendi proprio perché viene consumato ai danni della persona che è stata la compagna della nostra vita.
La seconda. Le modalità appaiono decisamente aspre e truculente: aver infierito ripetutamente brandendo un coltellaccio da cucina - come riportano le cronache - sulla vittima, denota infatti una particolare attitudine alla violenza e, per di più, esercitata su una donna, soggetto certamente più debole e incapace di adeguata difesa.
La terza. Aver consumato il delitto sotto gli occhi della piccola figlia significa aver offeso anche lei in modo incommensurabilmente grave e senza rimedio.
Non ci vuole lo psicologo per capire che la bambina porterà dentro di sé per tutta la vita l'orribile scena alla quale è stata costretta ad assistere: magari non avrà compreso bene dapprima cosa stesse realmente accadendo, avrà tentato di distogliere il padre dal gesto, avrà pianto, gridato, cercato l'aiuto di qualcuno
e alla fine sarà stata uccisa anch'essa - e in modo crudelissimo - perché, ammazzando la madre davanti ai suoi occhi disperati, il padre ha ucciso in pari tempo la sua infanzia e la sua innocenza.
Di colpo la bambina è diventata adulta: e a questo non sempre si sopravvive.
Tutto questo orrore, tutto questo dolore, tutta questa infamia vengono compensati da soli dodici anni di reclusione?
La risposta è, tragicamente, no. Anche perché, come è noto, computando il periodo di carcerazione preventiva già sofferta, gli sconti di pena per buona condotta, i benefici previsti dalle leggi penitenziarie, è ragionevole ipotizzare che fra quattro o cinque anni al massimo il colpevole tornerà del tutto libero.
In Italia, allora, c'è evidentemente qualcosa che non funziona nell'amministrazione della giustizia.
In particolare, non pare che si rispetti in tutti i casi il giusto rapporto di proporzione fra gravità del reato commesso e pena in concreto inflitta.
Ne viene qualcosa di incomprensibile: l'uomo della strada infatti si chiede come e perché a questo uxoricida sia stata inflitta la pena di dodici anni, mentre a soggetti ritenuti colpevoli di delitti ben meno gravi (un nome per tutti, quello di Previti) - dove in sostanza si tratta soltanto di denaro - è stata inflitta una pena di undici anni, vale a dire, sostanzialmente, una pena di identica misura.
Un reato di corruzione - per quanto grave - può ritenersi di pari gravità rispetto ad un efferato uxoricidio? La coscienza giuridica risponde di no e, così rispondendo, fa a pugni con la realtà dei nostri giorni che denuncia un male assai grave.
Sembra infatti essersi appannata quella lucida consapevolezza che sempre deve accompagnare il giudice-giurista: vale a dire che la pena deve essere sempre proporzionata al delitto commesso in tutte le sue circostanze e non deve servire a dare un «esempio» a nessuno (come oggi molti vorrebbero).
A forza di dare l'«esempio», ci si è dimenticati che il diritto non vuole esempi, ma pretende qualcosa di ben maggiore importanza: pretende la giustizia.
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