I maestri della cultura che si sentono chic a evocare il Ventennio

Ossessionati dal fascismo, gli intellettuali di sinistra ragionano con schemi di 60 anni fa: quando al governo c’è il centrodestra gridano al rischio dittatura

I maestri della cultura che si sentono chic a evocare il Ventennio

La lingua italiana, come è naturale e inevitabile, cambia con il trascorrere del tempo, adeguandosi ai mutamenti sociali, e culturali: nessuno parla né scrive come ottant’anni fa. Le categorie del pensiero, invece, appaiono eterne e immutabili: un buon pezzo della nostra intellighenzia - la quale, notoriamente, è di sinistra o non è - ragiona come negli anni Cinquanta.
In Italia, Paese che si riesce ad apprezzare solo a debita distanza e con le giuste precauzioni - motivo per il quale molta gente minaccia l’esilio appena cambia il governo - le dittature sono state due: quella fascista, durata vent’anni, e quella dell’egemonia comunista, durata sessanta. Curiosamente, forse per paura di perdere il primato, è sempre la seconda a tuonare contro il ritorno della prima.
Sono «quelli che evocano il regime», buoni maestri senza il voto dell’elettorato italiano ma prontissimi a dare i voti alla scuola-Italia, sempre e comunque da bocciare in quanto autoritaria e ignorante; maître-à-penser lucidissimi, le cui dichiarazioni sono la dimostrazione grammaticale di quanto per loro la confusione sia sinonimo di profondità; chierici intellettualmente organici con un’innata capacità a essere gli ultimi ad andare in guerra e i primi a tradire.
Negli ultimi sessant’anni il significato del termine «fascismo», con uno slittamento lessicale inversamente proporzionale alla monolitica ipocrisia di chi lo usa, si è progressivamente allargato a definire le manifestazioni di un governo che possano ricondursi ad analoghe espressioni utilizzate durante il regime mussoliniano. Anche abbondantemente fuori contesto. Così, dall’accusa di fascismo per una repressione di un moto politico di opposizione, per esempio, si è passati in meno di una generazione all’accusa di fascismo per un maggioranza democraticamente eletta il cui partito di riferimento sia guidato da un uomo politico molto ricco, con un canale tv più del necessario e amico di Craxi.
Li chiamano, e si chiamano, «progressisti». A rigor di logica e di grammatica, dovrebbero essere persone sostenitrici di idee innovatrici. Chissà perché, però, invece di montare il navigatore satellitare sulla macchina del futuro, continuano ad andare avanti guardando nello specchietto retrovisore della Storia. Tradizionalisti nel venerare il concetto di Ur-fascismo di echiana memoria e sempre in anticipo nello scorgere ovunque i germi di un rinato totalitarismo, i progressisti del pensiero e della politica sono in perenne ritardo ideologico. Non sanno più ascoltare il Paese, motivo per cui non prendono più voti, e non lo sanno più comprendere, motivo per cui pretendono con snobismo radicale di continuare a dargli lezioni. Sono vecchi loro, sono vecchie le loro categorie, sono vecchie le loro interpretazioni, sono ancora più vecchi i loro insulti. Soloni della Legge e della Giustizia sono in realtà i barbari dell’Intolleranza e della Partigianeria. Il disonesto mestiere di filosofare.
Eccoli i sacerdoti dell’Ur-antifascismo, l’intellettual-comunismo primigenio e archetipico che periodicamente rinasce dal millenovecentoquaranta...
Ci sono gli ANTIFASCISTI STRISCIANTI: come Alberto Asor Rosa, critico letterario inflessibile ma «incline» a pensare che il governo Berlusconi abbia toccato, ancora più che il fascismo, il punto più basso nella storia d’Italia; come il vecchio Arnoldo Foà, straordinario uomo di teatro, imbattibile quando c’è da rimettere in scena la sempre richiestissima pantomima anti-fascista, uno che a 92 anni neppure porta gli occhiali ma l’Italia di oggi chissà perché la vede malissimo; o come il giovane Elio Germano, che sta portando in giro per l’Italia uno spettacolo teatrale dal titolo inequivocabile: Verona caput fasci. O come Sabina Guzzanti, che ieri ha lanciato dal suo blog una campagna di «outing civile», un movimento per spingere le persone a dire dovunque «la verità», e a riprendere con una telecamera questi gesti: «l’unico mezzo per scongiurare l’attuale stato di dittatura definitiva».
Ci sono i CRIPTO-FASCISTI: come Giorgio Bocca, uno che «il ritorno del fascismo magari no» - lui che giovane balilla osannava il Duce - «ma il ritorno all’autoritarismo quello sì» - lui che se osi contestargli una virgola ti manda a casa un manipolo di avvocati ex partigiani; o come Dario Fo - e basta con questa storia che è stato repubblichino! - uno che indubbiamente fa ridere tutti ma poi finisce per prendersi troppo sul serio.
Ci sono i DEVOTI DEMOCRATICI: come don Antonio Sciortino, uno che con curiale pacatezza fa due copertine choc di Famiglia Cristiana sul ritorno del nazi-fascismo e poi - sinceramente, serenamente - dichiara: «Sono meravigliato da queste reazioni: non abbiamo pregiudizi contro Berlusconi»; o come Beppe Del Colle, maestro di giornalismo, di Marco Travaglio e di antiberlusconismo preterintenzionale.
E ci sono i COMUNISTI METASTORICI: come Umberto Eco, sempiterno interpretatore, da quel pezzo di semiologo che è, di «climi dittatoriali», «minacciose atmosfere», «umori pericolosi» che dal 1994 starebbero avvelenando l’Italia; o come Paolo Flores d’Arcais, tre nomi per un’unica ossessione: Berlusconi; o come Luciano Canfora, l’ultimo marxista convinto d’Europa: incolore, infiammabile, irritante, ottimo per allontanare le tarme.
Alieni da ogni possibile semplificazione - pericolosa deriva da cui gli intellettuali progressisti sono scevri - i sacerdoti dell’Ur-antifascismo erano stati già messi in guardia - ottant’anni fa! - da Palmiro Togliatti, notoriamente il Migliore di tutti loro: «Voglio esaminare prima di tutto l’errore di generalizzazione che si fa abitualmente servendosi del termine “fascismo”. Si è presa l’abitudine di designare così ogni forma di reazione. Un compagno è arrestato, una manifestazione operaia è dispersa dalla polizia, un tribunale condanna dei militanti, una frazione parlamentare comunista vede i suoi diritti lesi o abrogati, insomma in occasione di ogni attacco o violazione delle cosiddette libertà democratiche consacrate dalle Costituzioni borghesi, si sente gridare: “Ecco il fascismo! Siamo al fascismo!”. Bisogna intendersi: se si ritiene giusto applicare la designazione di fascismo a ogni forma di reazione, passi. Ma non capisco che vantaggio vi troveremo, salvo forse nell’agitazione».

Una lezione che gli intellettuali progressisti non sembrano aver recepito. E neppure i politici per la verità.
D’altro canto, l’attuale opposizione rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi. Più del comunismo marxista-leninista? Incliniamo a pensarlo.

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