La sfida a suon di cazzotti tra Gian Paolo Ormezzano e il Covid, l'ha vinta lui: quel giornalista 86enne riconoscibile sul ring per i pantaloncini granata (vedi fede calcistica) e seduto sullo sgabello all'angolo di sinistra (vedi fede politica). Ormezzano in versione «Toro scatenato», nato a Torino (e dove se no?), il 17 settembre 1935, se l'è vista brutta nel match più violento mai combattuto.
Picchiava duro il dannato Coronavirus, tanto che sotto i suoi colpi Gian Paolo (per gli amici «Gpo») ha rischiato di rimetterci la pelle. Ma poi il reporter pallonaro (nel senso di esperto di calcio) più amato dalla curva Maratona ha sfoderato il colpo segreto che ha fatto morire dal ridere l'avversario. È stato quando «Gpo» gli ha detto a muso duro: «Io sono un uomo due volte fortunato. La prima perché non sono nato donna in Afghanistan; la seconda perché sono nato a Torino senza mai diventare tifoso della Juve». KO tecnico. Unico caso conosciuto in cui il campione mondiale del contagio è andato al tappeto schiantato dalla forza pandemica dell'ironia. Lo humour, antidoto alla malasorte che ha sempre protetto Ormezzano, decretandone il successo come «cronista sportivo» (titolo limitante, al pari di un Sassicaia definito «vino rosso a tutto pasto»). In realtà «Gpo» è il prototipo del giornalista giramondo che tutti quelli che ambiscono a questo mestiere sognano di diventare: «L'inviato speciale» di Evelyn Waugh. Bei tempi quelli in cui il tuo capo ti diceva: «Vai, guarda e scrivi». Col tempo il «vai» è stato sostituito dal «telefona»; il «guarda» dal «senti» e lo «scrivi» dal «copia e incolla». L'unico viaggio consentito è ormai solo quello da casa alla redazione. E, con lo smart working, neppure più questo. «Gpo» parla, regalando la voglia di ascoltarlo con lo stesso incanto che ti cattura leggendo i suoi pezzi: divertenti, mai banali. Uno humour inglese variegato alle nocciole piemontesi, e il fantastico mix sa di porridge con retrogusto alla Nutella. Ormezzano sì che se l'è spassata. Mentre racconta, ghigna. E ogni ghignata è un tuffo in un passato di prime pagine; di reportage esclusivi; di birbonate; di furfanterie; di amarcord che hanno il sapore dei velluti raffinati dell'Orient Express. Quando i giornali rimborsavano le note spese più «creative»; ti prenotavano il posto in business class e l'hotel a 5 stelle. Mica come ora, che ti contestano la corsa in taxi anche se un attimo prima ti sei rotto una gamba cadendo dalla bicicletta.
«Tutto merito o colpa delle nuove tecnologie - narra Gpo - che hanno trasformato il mestieraccio in qualcosa che non so dire se migliore o peggiore di prima. Non sta a me giudicare. Non sono nessuno per farlo». E invece Ormezzano è la Cassazione del giornalismo. L'ultimo suo libro Io c'ero davvero (Editore Minerva) è un'eccezionale Treccani della cronaca sportiva modello-bigino. Il lavoro in versione ludica. Il meglio del meglio, sintetizzato in 200 pagine da antologia. Incontri, scherzi, topiche del recordman delle Olimpiadi con 25 edizioni seguite in una carriera lastricata di onori, oneri e barzellette.
Già, le barzellette: tua grande passione.
«Per anni, non c'è stato giorno in cui io, Adriano De Zan, Sandro Ciotti e Giorgio Martino non ce ne raccontassimo una».
Ma, a volte, la realtà può battere la migliore freddura 10 a zero.
«Concordo».
Ad esempio: è vero che dopo essere andato in pensione hai diretto una rivista specializzata in servizi funebri?
«Vero. Tutta colpa del ciclista Alcide Cerato della scuderia Molteni. Lo avevo conosciuto al Giro d'Italia e ribattezzato il barista».
Cerato gestiva un bar?
«No. Gestiva le bare».
In che senso?
«Era, ed è ancora oggi, il titolare dell'impresa di pompe funebri lombarda San Siro».
Fu lui a scritturarti per la macabra avventura editoriale?
«Macché macabra. La rivista si chiamava La Buona Sera (sottotitolo: Periodico di Vita, Morte e Miracoli), aveva una veste grafica elegantemente patinata, con collaboratori di prestigio tra cui Enzo Biagi. Il mio stipendio non prevedeva denaro, ma vacanze gratis in Costa Smeralda. La Buona Sera veniva inviata gratis solo a personaggi di spicco».
E i destinatari vip - almeno quelli in buona salute - gradivano l'omaggio?
«A Natale la spedimmo con allegato un biglietto di auguri. Scoppiò un casino».
Fu allora che mettesti - diciamo così - una pietra tombale sul tuo rapporto giornalistico con lapidi e loculi?
«Neanche per sogno. Replicai l'esperienza anche in un giornale che si chiamava La Panchina (sottotitolo: Tattica e tecnica per riconoscere la morte e uscirne vivi)».
Un vero esperto del settore.
«Tanto da guadagnarmi anche un invito come ospite d'onore al Festival della Disperazione ad Andria, in Puglia».
A proposito di «disperazione»: anche il giornalismo ha ormai l'aria del caro estinto con i crisantemi avvolti nella carta stampata.
«La mia generazione è stata fortunata. Io sono stato super fortunato. Ho trovato sulla mia strada due grandi quotidiani: Tuttosport e La Stampa».
Di Tuttosport sei stato anche direttore.
«Direttore per consunzione».
In che senso «per consunzione»?
«L'editore, forse, non aveva alternative valide e scelse me. Ma in realtà non me ne fregava niente. La mia vocazione non era comandare ma andare, vedere e scrivere come fanno i veri giornalisti».
Categoria che tu dividi in tre razze: «cantaglorie», «erotisti» e «pornografi». Mi spieghi le differenze?
«I cantaglorie sono le penne che ambiscono alla letteratura; gli erotisti sono le firme di qualità che scrivono per il popolo senza disdegnare i piaceri della vita; i pornografi sono quelli che tendono a buttare tutto in vacca».
Tu sei stato un «cantaglorie»?
«Sì, ma poi ho virato, piacevolmente, sull'erotista».
Infatti, i «piaceri della vita», non li hai mai «disdegnati». Come quella volta a Berlino...
«In un night club due sanguisughe travestite mi prosciugarono il portafoglio».
Chi ti salvò dalla bancarotta?
«Gino Palumbo. Il direttore che, insieme con Antonio Ghirelli, ho amato di più. Gino mi disse: Non ti preoccupare, scrivi quello che vuoi, ti pagherò bene. E così risollevai le mie finanze».
Hai trascorso una vita nei giornali, sei diventato popolare in tv. Un tuo pezzo è mai stato censurato?
«No. Ho sempre lavorato in piena libertà anche perché i miei padroni sapevano che avevo il vaffa facile e quindi si mettevano nelle condizioni di non essere mandati a quel paese. Anche se...».
Anche se?
«Tanti anni proposi a un noto magazine un reportage dal titolo Io, seduto sul cesso di Gianni Minà. Però non se ne fece niente».
Ma cos'ha di speciale il «cesso di Gianni Minà»?
«Devi sapere che proprio davanti alla tazza del wc di Gianni c'è una grande parete con le fotografie di molti dei suoi celebri personaggi intervistati in 60 anni di carriera. E ti assicuro che essere guardati nei tuoi momenti più intimi da personaggi come Fidel Castro, Maradona, Mohammed Alì, Robert De Niro ecc. è un'esperienza emozionante».
Un'«esperienza emozionante» che hai provato spesso?
«Spessissimo. Gianni è per me più di un amico, un fratello. Frequento molto casa sua e, avendo una certa età, in bagno ci vado di frequente».
Sei stato legatissimo anche a tanti altri personaggi leggendari. Chi metti sul podio?
«Enzo Ferrari, che aveva un solo difetto: si fidava di me. Con Enzo Bearzot c'era un feeling speciale. A Livio Berruti continuo a fare da autista oggi che ha 82 anni e si muove con le stampelle così come lo scorrazzavo in una 500 quando era campione del mondo dei 200 metri».
Altra mitica amicizia: quella con Giampiero Boniperti. Relazione ancora più inspiegabile alla luce della teorica «incompatibilità» tra un torinista e uno juventino.
«Grande Giampiero. È morto proprio durante i giorni in cui io ero ricoverato per il Covid. Per lui ho diretto, in incognito, il periodico Hurrà Juventus».
Un'icona del «cuore Toro» che dirige la rivista dei Gobbi? I tifosi granata te lo avranno rinfacciato.
«Mai. Grazie a Dio la mia onestà intellettuale di uomo e giornalista è al di sopra di ogni sospetto. Idem per la fedeltà al Torino. Granitica. Anzi, granatica».
Toro-giornalismo, un derby tra le due grandi passioni «ormezzaniane», sempre finito in parità.
«Grazie a loro ho vinto alla lotteria, ma avevo comprato tanti biglietti. Tra i miei ex colleghi tromboni c'è chi pretendeva di vincere senza averne comprato neppure uno».
A proposito di colleghi, chissà quanti scherzi...
«Due tra i più belli me li fece Vittorio Feltri».
Racconta.
«Lavoravo alla Stampa, direttore Gaetano Scardocchia. Vittorio si inventò che Scardocchia aveva organizzato una festa. Io però quella sera avevo un incontro galante e quindi rinunciai al party. L'indomani Feltri mi disse che Scardocchia era offesissimo con me e che ci sarebbero state pesanti conseguenze. Io, tremebondo, telefonai al direttore scusandomi per non aver partecipato alla festa. E Scardocchia: Ormezzano, ma di cosa parla? Non c'è stata nessuna festa».
L'altro scherzo?
«Ero a Bergamo per seguire la partita dell'Atalanta. A un certo punto vedo un tizio poco lontano che comincia a inveire contro di me: Ormezzanooo, sei un torinista di m... Tornatene a casaaa!. All'inizio faccio finta di nulla. Ma il tizio continua imperterrito a offendere. Nell'intervallo mi faccio coraggio e decido di affrontarlo. Mi avvicino e scopro che era il mio amico Feltri. Che mi consiglia di cambiare gli occhiali».
«Io c'ero davvero è un libro che assomiglia a una seduta psicanalitica. La storia di due virus: uno maligno, il Covid, l'altro benigno, il giornalismo. Che si sono incrociati tra le corsie dolenti degli ospedali dove umiliazione e morte regnavano sovrane.
«Il mondo non aveva nessun bisogno di questo libro, mentre ne avevo io di scriverlo. Me la sono cavata, ribaltando certi pronostici del genere scientifico-gufesco. Cinque diversi ricoveri in un mese tutto tremendo. Ho assistito a scene degradanti ma anche a eroiche solidarietà. Il bene e il male tra spirito di abnegazione e distruzione della dignità umana».
Il tuo reportage dal mondo della sofferenza dovrebbero leggerlo quelli che dicono che il Covid è una montatura.
«Avevo i polmoni invasi dal virus. I miei vicini di letto erano immobili col casco in testa e cannule nel naso. Respiri uguali a rantoli. Poi, improvvisamente, sparivano nel nulla. Come fantasmi. Ne ho contati a decine. Poi ho preferito smettere».
Sei finito in terapia intensiva?
«Sì. Ma mi hanno salvato le mentine che ho sempre preferito alle sigarette. Il fatto di non essere un tabagista si è rivelato un aiuto fondamentale».
Hai raccontato, con estrema crudezza, lo strazio dei contagiati che ogni giorno morivano senza neppure l'ultima carezza dei loro cari.
«È stata una testimonianza sofferta. Da sopravvissuto all'inferno del dolore. E che mi ha fatto apprezzare la mia vita precedente che, a confronto, può sembrare una lunga gita nel paese dei balocchi».
Hai tre figli (e otto nipoti). Timothy Ormezzano fa anche lui il giornalista. Dedicagli una frase.
«È la stessa che dico a tutti quelli che mi stimano e, forse, mi vogliono un po' di bene».
Cioè?
«Viva noi!».
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