I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d'autore

Giorgio Gaber: quelli della mia generazione, che era anche la sua, non potranno dimenticarlo. Nessuno più di lui, con molte canzoni e poche parole, ha saputo interpretare un'epoca: dalla fine degli Anni Cinquanta all'inizio del Terzo Millennio, quasi mezzo secolo durante il quale è accaduto di tutto. La rinascita postbellica; il miracolo economico, che ha trasformato Milano in una metropoli (... come è bella la città... come è grande la città...); il Sessantotto e le sue confuse speranze; il declino del regime democristiano e le frustrazioni della sinistra.
A dire il vero, molti artisti, in particolare registi cinematografici, hanno raccontato con efficacia le miserie e gli splendori della società che abbiamo tutti contribuito a rendere amabile e detestabile, generosa e crudele. Ma Gaber ha fatto qualcosa di più: è riuscito a cogliere il meglio e il peggio di un popolo, che si è riconosciuto, senza offendersi e talvolta divertendosi, nelle sue composizioni. D'altronde, lui era uno di noi: non si dava arie da divo, non era mondano, non perdeva tempo neanche quando oziava. Anzi, nei momenti in cui apparentemente non faceva nulla, in realtà poneva le basi del proprio lavoro: riordinava le idee, metteva a fuoco i ricordi e le osservazioni che gli erano rimasti impressi nella memoria, buttava giù appunti, cercava accordi adatti a esprimere in musica (e poesia) la sintesi di ciò che aveva immagazzinato nella fantasia.
Per creare non aveva bisogno di ispirazione; gli bastava guardare la vita degli altri, da cui traeva materia narrativa inesauribile. Ecco perché nelle canzoni di Gaber ciascuno trova quasi sempre una parte di sé, una pagina della propria storia, un sentimento da condividere. La ricchezza e la varietà del repertorio gaberiano fanno sì che ogni italiano abbia modo di recuperare un motivo calzante con la propria esperienza. La voce inconfondibile dell'autore, poi, è un brand rassicurante, infonde fiducia a chi l'ascolta, non delude mai: anche gli album meno frequentati dal grande pubblico riservano deliziose sorprese.
Naturalmente i critici musicali, essendo spesso più politicizzati (in senso deteriore) dei cronisti parlamentari, hanno tentato di appiccicare a Giorgio una qualche etichetta partitica. Sforzo vano. Gaber, infatti, se si fosse avvicinato con interesse a un movimento, immediatamente ne avrebbe visto i difetti, i vizi, i limiti e le ipocrisie, e la sua simpatia sarebbe degenerata in antipatia, addirittura insofferenza. Egli aveva la straordinaria capacità di resistere alla seduzione del branco, di qualsiasi branco, e quella di ironizzare sulle persone che, invece, per sentirsi qualcuno hanno la necessità di appartenere a un gruppo.
Non odiava l'umanità, la compativa e la descriveva - anche nelle sue debolezze - con affettuosa derisione. Gaber si è cimentato in vari generi e sempre con successo, che è figlio della tenacia e della fatica.

Ma c'è un Gaber sublime eppure meno elogiato: il Gaber prima maniera, quello di «Porta Romana» e quello intimista di «Non arrossire», in cui svela la sua attitudine ad amare. Già, lui aveva un cuore, e un po' se ne vergognava, come tutti quelli che ce l'hanno.

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