I libri in Italia tentano chiunque, non tanto leggerli ma scriverne almeno uno, perché vogliono essere tutti «... e scrittori», figuriamoci i politici. Ma a parte pochi casi altissimi di scrittori entrati in Parlamento, in generale il politico dovrebbe fare il politico e lo scrittore lo scrittore. Almeno però i libri di Massimo D'Alema o di Matteo Renzi non hanno velleità letterarie, sono libri di politici che parlano di politica. Il problema è quando cominciano a credersi davvero scrittori.
Tipo il deputato Furio Colombo, che fu insignito sulle pagine dell'Unità (di cui era direttore), da Angelo Guglielmi, del titolo di miglior scrittore italiano (per l'esattezza Guglielmi scrisse «miglior facitore d'arte», da prenderlo a frustate solo per questa espressione). Almeno Emilio Lussu, ministro e parlamentare, è diventato un classico perché doveva raccontare la prima guerra mondiale, che aveva fatto. Ma già i libri di Luigi Federzoni, che fu pure presidente del Senato del Regno, oggi, chi se li legge più? Eppure all'epoca dovevano portargli molto lustro, e anche all'epoca non mancavano i lustrascarpe.
Viceversa ci sono casi come quello di Roberto Saviano, autori che vogliono essere presi sul serio per la letteratura, pur producendo di fatto narrativa politica. Se lo scopo di ogni libro e articolo di Saviano è combattere la mafia e il capitalismo, perché non fa il politico o il magistrato anziché sfornare romanzi e serie tv?
Ma la coppia più bella del mondo degli scrittori che sono politici (o politici che sono scrittori) è quella di Walter Veltroni e Dario Franceschini, soprattutto per come la stampa, i critici, gli intellettuali, i giornalisti li elogiano a ogni uscita editoriale. Veltroni anni fa iniziò una rivoluzione tipografia, quella del cosiddetto «corpo veltroni»: siccome i librini erano davvero minuscoli, venivano stampati in un corpo gigantesco per riempire una pagina con cinque righe. I temi erano sempre quelli: Kennedy, l'Africa, Berlinguer, la bontà, la sensibilità, il tutto sviluppato come se vivessimo nel mondo di Heidi. Negli anni giornalisti e critici compiacenti lo hanno paragonato a chiunque, da Platone a Dostoevskij. Stessa sorte è toccata al ministro della Cultura Dario Franceschini, che Roberto Vecchioni (cantautore e scrittore) ha paragonato a Achille Campanile, Jonathan Coe e Anton Cechov. Franceschini, sulla Stampa, ha osservato che «in Italia si può essere insegnanti e scrittori, giornalisti e scrittori, cantautori e scrittori, ma politico e scrittore no, non è accettato».
Come non è accettato? Ma se occupi pagine culturali, e eventi, e presentazioni, e trasmissioni tv da anni con i tuoi libri? Tuttavia precisa: «Io non sono riuscito mai a dire: sono uno scrittore». Ecco, almeno su una cosa siamo d'accordo, ma oltre a non dirlo, non pubblicarli nemmeno.
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