Un inedito fa riscoprire il Pascoli rivoluzionario

Il giovane poeta lo scrisse per l’Internazionale anarchica durante il periodo bolognese

Nella sua interezza o quasi (sette strofe sulle nove totali), veniamo a conoscere un altro prezioso documento di quel Pascoli anarchico, sul quale Elisabetta Graziosi, e non da oggi, ci fornisce ragguagli nuovi, sostanziosi. Ecco dunque un inno, datato 1878, rimasto, sì, inedito ma giunto, non sappiamo quando e come, fra le carte di un «nemico» storico del poeta romagnolo, Benedetto Croce: che lo custodì a lungo, si direbbe con feroce pazienza, per ricavarne al momento opportuno (1907) osservazioni poco benevole sulla «mitezza» di un Pascoli ormai acclamato poeta delle patrie virtù, alle quali dedicava adesso ben altro genere di inni. A Croce non piaceva che, nella biografia del Pascoli, si cominciasse dalla fase del socialismo umanitario, approdato infine a quello nazionalistico suaccennato, ignorandone o sfumandone la stagione dell'anarchismo bolognese. Giovanile sì (nel '78 il poeta aveva ventitré anni) ma non così acerba da giustificare l'estremismo violento che colpisce anche l'odierno lettore di quest'inno. E poi l'appello alla «vendetta» non lascia certo presagire prossime virate in una prospettiva socialistica: fermo restando il tema del «soffrire», qui tutto suona eversivo, nei roventi e irruenti doppi senari pascoliani manca il minimo richiamo alla sacralità del lavoro o meglio alla necessità che quanti il lavoro ha tenuto sin qui in condizione di schiavitù si uniscano (per contro, nel celebre Inno dei lavoratori di Filippo Turati: «Se divisi siam canaglia,/stretti in fascio siam potenti...»). Sulle orme di Andrea Costa, Pascoli arriverà a scoprire - e a predicare tutto ciò - solo più avanti.
Non risulta che qualcuno abbia ricevuto l'incarico di musicarlo, quest'inno: magari proprio la sua truculenza sarà parsa inadatta, per eccesso, a rappresentare i termini di quella «vendetta» cui anelavano i fedeli del rossonero vessillo dell'anarchia. Gli innesti carducciani, dove si parla di Satana; i lacerti biblici come il «giorno dell’ira»; le evocazioni di modelli eroici positivi quali Prometeo e Spartaco, appartengono alla libera fantasia dei poeti, che sono soliti allineare sul medesimo orizzonte il mito e la storia, nonché le Scritture, interpretandole nel modo che più giovi. E il massimo eroe qui è appunto Satana, in quanto ribelle alla somma Potenza dell'universo.
Ribelle castigato, però; come sono sconfitti sia Prometeo nella mitologia che Spartaco nella storia. Ma ciascuno di loro cercava di affrancare l'uomo da un’obbedienza, da un servaggio. Ed è interessante che per destare alla «vendetta» e alla «libertà» gli oppressi da «delitto» ed «errore», il giovane Pascoli si rifaccia a esempi indubitabilmente tragici. La tragica gravità di una situazione storica incancrenita non gli sfugge.
Satana giudica Iddio, i bambini affamati e le fanciulle stuprate si apprestano, nel vaticinato dies irae, a giudicare affamatori e stupratori. Il rosso della bandiera anarchica si mischia col rosso del sangue, e quasi non v'è altro colore, nel testo dell'inno. Incalzante come si deve, nello stesso ritmo e metro del cosiddetto Inno di Garibaldi del Mercantini e, se vogliamo, del primo dei due cori del manzoniano Adelchi.

La Graziosi, al telefono, mi confessa che questi versi le paiono belli, e io credo di capirla: nel senso che li valuta funzionali, nel loro costrutto enfatico, allo scopo; è una funzionalità che sopravvive, anche se non se ne fece, a suo tempo, l'uso cui l'autore li destinava.
Era, in ogni modo, un uso più scoperto - meno subdolo - di quello che ne fece, per denigrazione tardiva, come si è udito, il Croce.

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