INTELLETTUALI E DEMOCRAZIA

Una settimana dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, a Spalato venne arrestato uno studente universitario accusato di svolgere «attività antistatali». Quel giovane, di 22 anni, era certo un rivoluzionario - lettore di Mazzini e di Bakunin, di Stirner e di Herzen, e anche di Nietzsche - ma, in realtà, non apparteneva al genere degli attivisti. Era, più che altro, un intellettuale il quale, al pari di tanti giovani della sua generazione, aveva subito il fascino delle idee nazionaliste dibattute nelle società, nei circoli, nelle organizzazioni patriottiche nate nei territori del grande impero austro-ungarico. Era stato tra i fondatori, e ne era diventato presidente, della Gioventù progressista serbo-croata, un gruppo aderente alla Giovane Bosnia della quale faceva parte anche il giovane poeta Gavrilo Princip, che il 28 giugno 1914 avrebbe ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo.
Questo giovane universitario sarebbe diventato famoso in seguito come scrittore. Si trattava, infatti, di Ivo Andric, cui sarebbe stato assegnato nel 1961 il Premio Nobel per la letteratura e che avrebbe legato il suo nome a romanzi famosi, come La cronaca di Travnik e Il ponte sulla Drina, che hanno la struttura e il sapore dei grandi affreschi storici. La letteratura fu, certo, il grande amore di Andric, coltivato per molto tempo in privato, ma, accanto a questa passione, vi furono il suo impegno come diplomatico e la sua attività politica come deputato, prima della Repubblica della Bosnia ed Erzegovina, e, poi, della Repubblica federale jugoslava. La prima sede nelle quale egli si trovò ad operare come diplomatico, come giovane diplomatico, in veste di segretario del Regio consolato presso la Santa Sede, fu Roma, la Roma dell’inizio degli anni Venti.
È comprensibile che Andric, appassionato di storia e imbevuto di cultura nazionalista, abbia dedicato attenzione al fenomeno fascista e alla figura stessa di Mussolini e abbia cercato di darne e darsene una spiegazione, sia in termini storico-politici sia in termini culturali, in molti scritti, alcuni di natura giornalistica altri di carattere saggistico, praticamente sconosciuti in Italia. Di essi si occupa un bel saggio di Roberto Valle dal titolo Genealogia e crepuscolo del fascismo: Ivo Andric e la rivoluzione fascista in Italia e nei Balcani, inserito nel volume collettaneo Intellettuali versus democrazia. I regimi autoritari nell'Europa sud-orientale, (Carocci) curato da Francesco Guida. Si tratta, a mia conoscenza, dell’unico studio che esamini, in maniera sistematica e contestualizzata, questa produzione di un grande scrittore che, per sua stessa ammissione, intendeva essere testimone e «appassionato osservatore della storia».
Alle origini culturali del fascismo vi erano per Andric, in una posizione privilegiata, due intellettuali, Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D'Annunzio, le cui opere - in particolare, del primo, L’alcova d’acciaio e, del secondo, il Notturno - egli ebbe modo di recensire, cogliendone soprattutto, al di là della dimensione estetica, una natura politica quale riflesso o conseguenza di quella «enorme prova, terribile e assurda» che era stata la prima guerra mondiale. Tuttavia, il futuro premio Nobel per la letteratura si rese subito conto che per quanto potesse essere l’idolo dell’Italia post-bellica, D’annunzio non avrebbe mai potuto assurgere a quel ruolo di guida spirituale o di arbitro della nuova Italia del quale si sarebbe autoinvestito Mussolini, il quale con la «marcia su Roma» avrebbe completato la «marcia su Ronchi». Nel caso di Marinetti e dei futuristi, il giudizio di Andric era diverso. A suo parere Marinetti e i futuristi erano stati, davvero, fin dalle origini, fascisti o, se si preferisce, protofascisti: lo erano stati nella valorizzazione e nella utilizzazione della piazza e nel dichiarato disprezzo per la cultura e il «passatismo». Lo erano stati, ancora, per una dimensione ideologicamente reazionaria anche se rivestita di retorica ribellistica, per quel mix, insomma, che costituiva l’essenza del fascismo. E che, in fondo, com’ebbe Andric a profetizzare verso la metà degli anni Venti, avrebbe condotto il fascismo alla catastrofe: essendo stato un prodotto della guerra, di una grande guerra, esso non sarebbe potuto che terminare con una guerra, con una grande guerra combattuta per la supremazia.
Interrogandosi sulla natura del fascismo, il giovane Andric ne parlò, nel 1923, come di un movimento che presentava, insieme, i caratteri della reazione e della rivoluzione, essendo un fenomeno polimorfo dal punto di vista ideologico e politico frutto di «numerosi e multiformi influssi che sfuggono alle etichette». Esso si era affermato grazie al fallimento del «miracolo rivoluzionario» promesso dalle sinistre del dopoguerra e alla «disgregazione interna» del socialismo italiano. Era riuscito a incanalare il malessere del provincialismo nazionale che aspirava a un futuro di grandezza: la «provincia» italiana da sempre «litigiosa e ottusa» aveva trovato nello squadrismo una «nuova formula semilegale per sfogare i suoi antichi odi e i suoi peggiori istinti».
È davvero singolare come il giovane Andric, non ancora dedicatosi alla letteratura, sia stato in grado di cogliere, negli articoli scritti in diverse occasioni (e ben analizzati da Roberto Valle nel suo saggio) certi tratti significativi di quel fascismo che egli naturalmente per la sua formazione e militanza politica non poteva né apprezzare né condividere, ma che, probabilmente per il suo lavoro diplomatico, doveva sforzarsi di capire e spiegare. Ed è singolare che sia riuscito a farlo anticipando, in molti casi, i termini della discussione storiografica successiva. La spiegazione dell’acutezza e della modernità di certe analisi del fenomeno fascista da parte di Andric sta, molto probabilmente, nella sua sensibilità per la storia, in generale, e per la complessità della storia, in particolare.

Una sensibilità che - quando egli deciderà di dedicarsi soltanto alla scrittura - gli consentirà di dare forma e vita ad alcuni fra i più bei romanzi del Novecento, nei quali la «grande storia» nazionale o multinazionale si incontra e si mescola con la «piccola storia» individuale dei singoli.

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