Detersivo, sapone per piatti, passata di pomodoro, fette biscottate, foie gras. Ops, depennate l'ultima voce dalla lista della spesa. La Coop, la più grande catena di grande sitribuzione nel nostro Paese, ha deciso di togliere dai propri scaffali il prelibato fegato di oca (o anatra), sogno più o meno proibito di molti gourmet con uso di carta di credito. Ragioni di etica, naturalmente: i pennuti destinati a produrre quello che viene considerato uno dei cibi più golosi del mondo sono infatti sottoposti per un periodo che varia dai 9 ai 21 giorni alla tortura del gavage, vale a dire l'alimentazione forzata. Chili e chili di cereali sono immessi con l'aiuto di un imbuto nella gola degli animali costretti in ambienti soffocanti, ciò che provoca in essi un ingrossamento del fegato fino a otto volte rispetto alle dimensioni normali. Quando le oche sono praticamente un fegato che cammina (poco, c'è da giurare), vengono macellate e trasformate nella materia dei sogni (dei buongustai): un incomparabilmente burrosa sostanza in cui dolcezza, grassezza e opulenza di sposano in qualcosa di peccaminosamente buono.
Troppo buono (al palato) per essere buono (al cuore). Il foie gras è il padre di tutti i cibi eticamente discutibili. Non è un caso che da qualche tempo lo stato americano della California lo ha messo al bando dai menu dei ristoranti e dagli scaffali delle delikatessen, provocando come ogni atto di proibizionismo fenomeni di contrabbando: alcuni ristoranti si procurano il proibitissimo ingrediente e lo somministrano a selezionati e omertosissimi clienti in serate carbonare. Il dubbio è lecito: meglio la proibizione o il buon senso?
Ora la crociata anti foie gras fa proseliti anche in Italia. C'è già chi giura che dopo la Coop anche le altre catene della grande distribuzione rinunceranno al fegato d'oca. E chi malignamente fa notare che non è poi un grande sacrificio per la gdo, per la quale i prodotti di lusso rappresentano un asset marginale, ancor di più in periodi di crisi come questi. Insomma, rinunciare al foie gras consente di ammantarsi di etica quasi gratis. Più coraggiosi i pochi chef di haute cuisine che hanno deciso di rinunciare a un ingrediente considerato quasi immancabile sulle tavole dei re. Tra questi Eduardo Ruggiero della Brioschina di Milano, che però non ci tiene a passare per primo della classe: «È vero - ci dice - io non propongo il foie gras ai miei clienti, e qualche volta mi è capitato anche di discutere con qualcuno di loro. Del resto io non cucino nemmeno aragosta e astice per la crudeltà con cui muoiono. Io penso che a volte è utile fermarsi a riflettere su quello che mangiamo. Sono una mosca bianca, ma non voglio criticare i colleghi che non fanno la mia stessa scelta, non voglio passare per fanatico, anche perché molti cibi controversi fanno parte della nostra tradizione. E poi ad approfondire le contraddizioni sarebbero tante. Ma a chi mi chiede il foie gras io di questa stagione suggerisco il tartufo».
In realtà non tutto il foie gras viene per nuocere. Da due secoli un'azienda in Estremadura (Spagna), la Paterìa de Sousa, produce foie gras di oca al cento per cento naturale ed etico, vale a dire senza sottoporre oche e anatre a gavage, ma semplicemente lasciandole libere di mangiare quello che vogliono e approfittando del fatto che in autunno tendano a rimpinzarsi in vista dei rigori invernali. E gli stessi francesi hanno riconociuto la bontà del foie gras di Eduardo Sousa attribuendogli un prestigioso premio che ha fatto storcere la bocca ai produttori transalpini.
Non solo: una ricerca pubblicata nel Journal of Agricultural and Food Chemistry ha dimostrato che non necessariamente i fegati di anatre e oche più grossi sono i migliori. Esagerare, insomma, non paga mai. E questo vale sia per chi ingozza i pennuti sia per chi fa ideologia alimentare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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