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Il diritto di cambiare contro la consorteria

La sinistra non piange per la sconfitta elettorale, ma perché non accetta di perdere pezzi di potere

Il diritto di cambiare contro la consorteria

Il diritto di cambiare. La sinistra non piange per la sconfitta elettorale, ma perché non accetta di perdere pezzi di potere: feudi, roccaforti, architravi burocratici, incroci di interessi e di influenze. È il nocciolo oscuro dello Stato, lì dove passa il controllo profondo e radicato, perché la politica passa, ma quella ragnatela di funzionari che si tramanda spesso di generazione in generazione è perfino più antica della democrazia. È la consorteria degli ottimati. Il Pd, in particolare, la considera in qualche modo la sua gente. È la vera base del consenso, che poi si allarga e scende nelle ramificazioni territoriali. È lì che il Partito democratico si riconosce, si specchia, si sente a casa. La rivendicano come una sorta di aristocrazia. È come dire: lo Stato siamo noi. Noi e non gli altri. Noi i migliori, noi i legittimi, noi che apparteniamo alla gens giusta. Noi dello stesso cerchio. Gli altri sono vissuti come usurpatori, imbucati, intrusi. Ora tutto questo non ha a che fare solo con il merito. È chiaro che in questa schiatta c'è anche gente in gamba, ma non basta. L'elemento cruciale resta l'appartenenza. È lo stare con noi. Non è un aspetto irrilevante, perché porta un messaggio implicito importante: se scegli la parte «giusta» sai dove porta la strada. Non devi camminare controvento. È per questo che ogni volta che sulla scacchiera di questo potere diffuso cade un pezzo la reazione è di stupore e indignazione. Ma come? È una bestemmia. Si insiste sul carattere quasi dissacratorio della sostituzione. Nicola Magrini, direttore generale dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, è uno dei simboli della lotta al Covid. Giovanni Legnini, commissario straordinario al post terremoto, viene difeso dai vescovi e diventa un martire di una nuova partitocrazia. Non importa che Legnini sia comunque espressione di un partito. La sua parte è legittima. La nuova parola d'ordine è fermare lo «spoils system». È un brutto modo di dire che viene dall'America di Andrew Jackson, il presidente che arrivò alla Casa Bianca per la sua fama di generale nella guerra del 1812 contro gli inglesi. La «vecchia quercia» era il peso massimo del Partito Democratico, populista, spiccio, diffidente. Fu lui a cacciare dai posti chiave dell'amministrazione federale tutti gli uomini del predecessore John Quincy Adams. Ecco da dove viene «spoils system». Le spoglie dei vinti. Chi vince in pratica si prende tutto. È questo che vuole il centrodestra? Non del tutto, non così. Non serve sostituire un colore con un altro, il nero con il rosso. È importante però rompere le casematte della sinistra. Far saltare l'idea che «lo Stato siamo noi». Questo significa liberare energie, cambiare lo sguardo, dare spazio a chi è invisibile perché non appartiene. È scommettere sulla visione dei cani sciolti. È uscire dallo stagno degli ortodossi e dare spazio alle anomalie. È cercare quello che l'abitudine non ti fa vedere.

È il diritto di uscire dagli schemi.

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