Il diritto di morire non va politicizzato

Manca ancora una legge nazionale specifica e il sistema è inadeguato: ritardi, incertezze, limiti applicativi generano una sofferenza che per me è intollerabile

Il diritto di morire non va politicizzato

Se servisse un'ulteriore prova del livello patologico raggiunto dal rapporto tra giustizia e politica in Italia, basta aprire «La Stampa» di venerdì 31 ottobre. A tutta pagina, il quotidiano torinese dedica un servizio ai «processi fantasma dei suicidi assistiti»: una sfilza di militanti radicali che, con Marco Cappato in prima linea, «hanno accompagnato un malato a morire in Svizzera e si sono autodenunciati. Ma dopo anni, parenti e volontari restano in un limbo: Lo Stato ci deve risposte». C'è chi ha «aiutato a morire» la madre, chi il padre, chi un'amica, chi ha agito da solo. Tutti accomunati dalla medesima urgenza: farsi giudicare da un tribunale. Ma perché? Si sono forse pentiti di aver infranto la legge? Tutt'altro. L'hanno violata volutamente - e non per un «vuoto normativo», come spesso si sostiene. In Italia, infatti, esiste e resta in vigore una norma chiara sull'aiuto al suicidio: l'articolo 580 del codice penale, che lo sanziona come reato. Questi attivisti si sono consegnati alla giustizia proprio per forzare la mano ai giudici (qualora non fossero già compiacenti), costringendoli a scegliere tra creare dei «martiri» o portare il caso alle corti superiori, con l'obiettivo di demolire la legge stessa. Lo chiamano disobbedienza civile, e in passato il meccanismo ha funzionato alla perfezione - basti pensare al caso Cappato Dj Fabo e alla celebre sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale. Da lì in poi la strategia è servita per mettere in crisi le Regioni e spingere a livello locale una legge sull'eutanasia che il Parlamento nazionale non ha mai approvato. Oggi, però, l'ingranaggio sembra essersi inceppato, e i cappateros non la prendono affatto bene. Il merito de La Stampa è di averli messi tutti in fila, rivelando però - forse senza volerlo - un effetto grottesco. Invece di suscitare empatia o allarme per la sorte di questi paladini dei diritti, l'articolo finisce per dimostrare che in Italia non c'è affatto la smania di mandare in carcere chi viola l'articolo 580. E che dunque non esiste alcuna emergenza o vuoto normativo da colmare: legalizzare eutanasia e suicidio assistito non servirebbe a risolvere un problema concreto, ma a trasformare in valore ciò che oggi lo Stato, giustamente, considera un disvalore. Come si può infatti riconoscere un diritto a togliere o togliersi la vita insopportabile, senza che questo diventi, di fatto, un invito a farlo?
A lasciare sconcertati è la sfrontatezza con cui Cappato e l'Associazione Luca Coscioni pretendono di piegare la giustizia ai propri fini politici. Ed è paradossale, perché se c'è un merito storico dei radicali è proprio l'impegno per le riforme liberali della giustizia - compresa, di recente, quella sulla separazione delle carriere. Oggi, invece, gli stessi radicali che per decenni hanno denunciato gli abusi della magistratura, finiscono per farsene protagonisti in nome del fine vita. E non si accontentano nemmeno quando il Parlamento, come riconosce lo stesso Cappato, «finalmente discute una legge» in materia. Già, perché una proposta ora esiste - e, essendo della maggioranza di governo, potrebbe perfino essere approvata. Addio quindi alla scusa dell'«immobilismo di governi e Parlamento». Peccato solo che a Cappato il testo non piaccia («vuole addirittura estromettere dal fine vita il servizio sanitario pubblico»). E così avanti, ancora una volta, con i casi giudiziari usati e abusati come strumenti di battaglia politica.

Antonio Cascone

Caro Antonio,
leggo la tua lettera con attenzione, perché tocca un tema che reputo assolutamente centrale nella nostra convivenza civile e che mi sta a cuore: la libertà individuale, la dignità della sofferenza e il rapporto tra giustizia e politica. Tu hai perfettamente ragione quando parli del paradosso di un gruppo di cittadini che si autodenunciano per forzare il sistema giudiziario e legislativo a cambiare ammettendo l'eutanasia e il suicidio assistito. E proprio questo dimostra che non siamo di fronte a casi isolati, ma a un fenomeno politico, culturale e giuridico, che non può e non deve essere ignorato e a cui occorre dare risposte con celerità. Come sai, ho espresso più volte la mia posizione: sono assolutamente favorevole all'eutanasia e al suicidio assistito in circostanze di sofferenza insopportabile. Ho affermato spesso: «Se siamo davvero padroni della nostra vita dobbiamo esserlo anche della nostra morte». E ne sono ancora e sempre convinto.

Allo stesso tempo, non credo che ciò giustifichi il bypass della legge, la provocazione sistematica o l'uso strumentale della giustizia come arma politica. Ma cosa fare quando un malato terminale, il quale non abbia alcuna possibilità di guarire, implora che qualcuno lo aiuti a mettere fine alle sue atroci sofferenze, alla sua agonia? Tendergli una mano è crimine o giustizia?

Ecco dunque i punti che desidero evidenziare. Sì, la legge esiste, ossia l'articolo 580 c.p. punisce l'aiuto al suicidio. Ed esiste la giurisprudenza, che ha ammesso l'eutanasia. Tuttavia, manca ancora una legge nazionale specifica e il sistema è inadeguato: ritardi, incertezze, limiti applicativi generano una sofferenza che per me è intollerabile. Come ho scritto, nessuno dovrebbe essere condannato a vivere contro la propria volontà, dentro un letto, intubato, paralizzato, ridotto a una carcassa. Il fatto che attivisti scelgano di provocare lo Stato denunciandosi volontariamente è la dimostrazione che il conflitto non è tra diritto e diritto, ma tra diritto e lentezza/omissione dello Stato. Concordo con te, quando la giustizia diventa strumento di mediazione politica anziché strumento di applicazione della legge, la democrazia si indebolisce. Lo Stato deve essere garante, non vittima delle sue stesse lentezze. Chiarisco che legittimare ogni forma di violazione della legge in nome della causa è pericoloso. Se trasformiamo il disvalore in valore politico, rischiamo di capovolgere la gerarchia dei principi: la dignità della vita non può essere piegata a tattiche politiche. In questo hai colto bene. Ma resto assolutamente sicuro che un essere umano, affetto da una malattia che non gli lascia scampo e lo condanna a terribile dolore, abbia diritto di lasciare questo mondo, se lo desidera, e che nessuno di noi abbia il diritto né di giudicarlo per questo né di impedirglielo.

In conclusione, sì, sono dalla parte della libertà di scegliere quando e come morire se le condizioni

lo rendono un atto consapevole e lucido. Il Parlamento e le istituzioni devono ora fare il loro compito: dare tempi certi, procedure chiare, rispetto della legge. Non possiamo ridurre la vita al limbo né la morte a slogan.

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