Democrazia sana. Il modello in crisi è quello progressista

Le notevoli difficoltà che incontra l'opposizione in Italia, e che affliggono la famiglia progressista in tutto l'Occidente, trovano alcune spiegazioni

Democrazia sana. Il modello in crisi è quello progressista
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Una famiglia politica che abbia occupato per anni una posizione di egemonia, nel momento in cui quell'egemonia viene meno, non può che patire una crisi esistenziale. Stando per decenni al centro dello spazio pubblico ha avuto vita facile, ha potuto minimizzare le proprie differenze interne, si è impigrita, disabituata a seguire le curve della storia e raccogliere il consenso porta a porta. Di fronte al nuovo mondo che sorge sulle macerie della sua egemonia, perde coesione e lucidità, alza i toni, insegue fantasmi, nega la realtà. Questo è accaduto alla famiglia politica liberale cent'anni fa, dopo la Grande Guerra. Questo sta accadendo oggi, di certo non soltanto in Italia, alla famiglia politica progressista. Chi lamenta il malessere della democrazia farebbe bene a partire da qui.

L'egemonia, innanzitutto. Con una certa pigrizia ideologica, siamo abituati a ripetere che gli ultimi decenni sono stati dominati dal neoliberalismo. Ovvero che ha regnato la destra. È una mezza verità. I processi di globalizzazione economica sono sì stati legittimati da una retorica neoliberale che, nata a destra, nel corso degli anni Novanta è stata accettata anche a sinistra. Ma, al contempo, abbiamo pure assistito all'ampliarsi, e non di poco, dei diritti individuali, civili e sociali; al moltiplicarsi e irrobustirsi dei vincoli giuridici creati dai processi d'integrazione sovranazionale; al profondo mutamento della moralità, in direzione di un'etica universalistica, egualitaria e inclusiva che tende a sterilizzare, quando non annullare, le identità territoriali. Tutte queste trasformazioni accettate dalla destra così come il mercato lo è stato dalla sinistra si sono compiute nel segno di un'assai gagliarda capacità egemonica, culturale e politica, del progressismo.

Oggi quest'amalgama di diritti individuali, integrazione sovranazionale ed etica universalistica viene rifiutato da segmenti importanti, in alcuni casi maggioritari, dell'opinione pubblica. Che includono, peraltro, larga parte dei ceti sociali un tempo orientati a sinistra. Lo dimostra con grande chiarezza, nel referendum di domenica, il risultato del quesito sulla cittadinanza, vera cartina al tornasole dello stato di salute del progressismo. Pressoché ovunque in Occidente, così, la famiglia politica progressista è entrata in una profonda crisi che dura ormai da almeno un decennio, e della quale per il momento non si vede la fine.

Per uscirne, i membri di quella famiglia seguono in ordine sparso tre strategie differenti. La prima consiste nel riconoscere la legittimità delle nuove sfide storiche e modificare pragmaticamente l'offerta politica progressista così che possa sperare di affrontarle con successo. La seconda nel negare invece qualsiasi legittimità a quelle sfide e nel difendere a spada tratta il vecchio mondo così com'era. La terza nello spingere il progressismo su posizioni ancora più radicali, nella convinzione che esso abbia fallito non per i suoi limiti intrinseci, ma perché non è stato abbastanza coerente e rigoroso. In particolare, perché è stato troppo tenero con il mercato.

In forma pura o mista, queste tre strategie sono tutte ben visibili nell'operato dell'attuale opposizione italiana. Un po' grossolanamente, potremmo dire che il centrosinistra di Renzi e Calenda è a cavallo fra la prima posizione e la seconda, là dove la sinistra di Avs è saldamente attestata sulla terza posizione. Il Partito Democratico adotta con le sue diverse anime tutte e tre le strategie, anche se la sua segretaria Elly Schlein mette insieme la seconda e la terza. Il Movimento 5 stelle, fedele alla propria natura ibrida, cerca di congiungere le due strategie più distanti, la prima e la terza.

Le notevoli difficoltà che incontra l'opposizione in Italia, e che affliggono la famiglia progressista in tutto l'Occidente, trovano così due spiegazioni: la crisi di consensi dell'ordine storico nel quale, sia pure al prezzo di doversi ingoiare una generosa dose di economia di mercato, i progressisti occupavano comunque una posizione egemonica; le profonde divisioni generate dalla compresenza di tre modi diversi di affrontare quella crisi, non sempre compatibili l'uno con l'altro in particolare, il primo con gli altri due.

Sul campo, certo, le contraddizioni astratte possono sempre essere gestite dalla politica, che in fin dei conti è un esercizio pratico e non teorico. Di fronte a una sfida storica di questa portata, però, di politica ce ne vuole molta, e molto buona. È lecito dubitare che il referendum abbia rappresentato un passo nella direzione giusta.

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