
Capaci davvero di tutto, di tanta miseria, di infinito squallore. Tre decenni passati a incolpare ingiustamente Silvio Berlusconi per tutte le stragi degli anni Novanta e, adesso, ora che i tempi e il governo sono cambiati, un altro squallido tentativo di deviare le colpe nei dintorni di «piste nere» vagheggiate, pochi giorni fa, dall'antimafia dei falliti, gente che gira con la scorta e non si capisce perché. Svincolo di Capaci, 23 maggio 1992: non sembra ieri , no, manco per niente, sono passati trentatrè anni e c'è ancora chi cerca di giudicare impunito ciò che è punito, di trovare esecutori già trovati, incarcerati da decenni, di individuare mandanti chersono tutti in galera oppure al camposanto: perché non basta mai, non c'è limite, «Dietro Capaci c'è molto altro» titolava ieri Repubblica, e «Rischio di nuovi veleni» faceva eco il Corriere Della Sera, due articoli da vietare nelle scuole di giornalismo, una miscela di frasi mischiate a caso, schiave di fonti squalificate e condannate alla senescenza, di deviati mentali con lo sguardo impallato.
Non esiste niente di cui si sappia davvero tutto: ma, della strage di Capaci, sappiamo molto, e ciò che sappiamo si divide tra verità giudiziaria e verità storica incisa nella pietra, ormai immutabile, persino il tempo siciliano è galantuomo: verità a cui hanno lavorato forze dell'ordine, investigatori, magistrati, uomini di carne e di sangue che credevano e credono nelle istituzioni. E l'istituzione più alta della magistratura, la Corte di Cassazione, nel 2002, ha confermato l'ergastolo (saltate l'elenco, se vi annoia) per Salvatore
Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Raffaele Ganci, Benedetto Spera, Benedetto Santapaola, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano, Matteo Motisi, Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello. Costoro sono sia i mandanti sia gli esecutori materiali della strage. Ripetamo: mandanti ed esecutori.
E sappiamo tanto altro, oggi. Sappiamo che Falcone fu ucciso perché la mafia corleonese voleva farlo fuori già dal 1982, quando lui individuò i percorsi del denaro, quando il giro affaristico passò dagli stupefacenti agli appalti, che fu ucciso dalla mafia per il colpo imperdonabile inferto alla mafia (nome effettivo Cosa Nostra, come precisò Tommaso Buscetta) all'eroico maxi-processo di Palermo, quello che Falcone condusse con Borsellino, Giuseppe Ayala e Pietro Grasso; fu ucciso perché aveva plasmato la superprocura assieme al Guardasigilli Claudio Martelli, questo a dispetto di resistenze fortissime a destra, a sinistra (soprattutto) ma nondimeno nelle file dei suoi colleghi. Falcone fu ucciso con una decisione pianificata nell'autunno del 1991 dalla cosiddetta «Commissione» (la Cupola) forse a Castelvetrano, Trapani: dapprima volevano ammazzarlo a fine febbraio 1992 a Roma, ma il piano saltò per ragioni che oggi paiono risibili: l'esecuzione era prevista in un ristorante, ma i killer che fecero i sopralluoghi confusero il locale «il Matriciano» (nel quartiere Prati) con «la Carbonara» (a Campo de' Fiori) dove pure Falcone andava. Rimandarono. Falcone, poi, fu ucciso lungo un percorso di terrore che portò anche alle successive e terribili stragi del 1993: perché non c'è una
causa sola, certo, ma una fu decisiva, e riguardava la terribile verità che Falcone aveva già fatto balenare il 15 marzo 1991 a Palermo, quando disse «la mafia è entrata in borsa» perché aveva capito che dietro la quotazione del gruppo Ferruzzi c'era Cosa Nostra. Lui, Falcone, come Borsellino capii nei 57 giorni che poi separarono Capaci dalla strage di via D'Amelio, sapeva dell'accordo siglato nella sede palermitana della Calcestruzzi tra Cosa Nostra e gli industriali del Nord, tra i quali figure legate a Confindustria, Impregilo, De Bartolomeis (le cooperative del Pci) e la Cogefar del gruppo Fiat, più altri, tanti altri. Ecco che cosa c'era scritto nel famigerato dossier mafia-appalti che anticipata tangentopoli, come persino Antonio Di Pietro ha dovuto ammettere a processo: un dossier circolato come un fantasma e curato dal Ros dei carabinieri di Mario Mori, qualcosa che la magistratura compromessa col potere cercò in tutti i modi di far sparire, riuscendovi. Ora è tutto scritto. Nelle sentenze. Molto timidamente, da poco, anche nelle cronache. Anche in un paio di libri.
E soprattutto nei verbali della Commissione antimafia, dove il generale Mario Mori è intervenuto un paio di settimane fa e ha detto quanto era necessario: coi Cinque Stelle, poi, a parlare vergognosamente di «depistaggio di Stato» anche se sono morti che camminano, uccisi dalla Storia: quella di Giovanni Falcone, che onoriamo ancor oggi, mentre di loro non serberà traccia.
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