L o sguardo di tutti questa volta è lì, dove più stretta è quella terra di nessuno che separa la vittoria dalla sconfitta. Dicono che tutto si decide al Senato. Dicono che a Palazzo Madama il prossimo governo dovrà guadagnarsi la fiducia centimetro dopo centimetro, come in una sfida di football americano, come raccontava Al Pacino ai suoi uomini in Ogni maledetta domenica. Dicono che è lì che i guastatori prepareranno la loro battaglia di resistenza e i mercati di voti faranno la loro fortuna. Dicono che è lì che questa volta i partiti schiereranno i loro pezzi da novanta. Perché il Senato è la frontiera. È la linea del fronte politico.
Nel nostro Parlamento le due Camere pesano allo stesso modo. Ma in passato a Palazzo Madama si è respirato un clima più austero rispetto a Montecitorio. Non c'era un Transatlantico dove passeggiare, conversare con i giornalisti, architettare inganni e imboscate, farsi vedere dai leader. Ora il baricentro potrebbe cambiare. Basta guardare le facce. Monti ha il suo seggio ancora non battezzato di senatore a vita. Napolitano lascerà il Quirinale e lo aspetta una poltrona nobile da ex presidente. Berlusconi ha scelto di giocarsi la sua ultima battaglia proprio lì, nella camera alta. E lì torna Bossi, per ridare un senso al suo soprannome di Senatùr. È in quelle stanze che Casini e la Finocchiaro si sfideranno per la presidenza e il manipolo di ex Pdl folgorati da Monti spera di trovare un porto sicuro, dopo che la loro lista è stata sacrificata per permettere a Fini di riciclarsi ancora una volta alla Camera per il sofismo elettorale del «miglior perdente», quello che permette a chi non raggiunge quota due per cento di portare comunque al Palazzo il loro capolista. Sembra che Gianfranco, per non peccare di ottimismo, abbia cancellato tutti i partitini che potevano fargli concorrenza in questa sorta di tresette a perdere. Ed è sempre al Senato che il giuslavorista Piero Ichino dovrebbe trovare l'equo compenso per i suoi servigi all'agenda Monti. Non dovrebbe invece esserci il povero Pisanu, visto che Enrico Bondi «mani di forbice» lo sta tagliando dalla lista dei montiani doc.
Al di là dell'album di figurine più o meno eccellenti ogni senatore avrà un peso capitale. Se alla Camera, con il premio di maggioranza, molti peones andranno solo a schiacciare bottoni, qui in questo palazzo nato come abbazia benedettina i voti non solo si contano, ma soprattutto si pesano. Il valore marginale di ogni scelta sarà infatti altissimo. Il merito, o la colpa, è di un equilibrio instabile che potrebbe costringere il governo a pagare care eventuali alleanze post elettorali e a elemosinare il sì e il no di ogni senatore. Questo, perlomeno, dicono per ora sondaggi e proiezioni di seggi. Se Bersani e i suoi alleati non vincono in Lombardia e Veneto non avranno una maggioranza per governare senza intoppi. Se poi perdono anche in Sicilia si fermerebbero a nove o dieci seggi di distanza dall'asticella della maggioranza, fissata a quota 158. Ecco perché il Senato è il fronte della politica futura e il mercato ideale per chi da una vita vende a caro prezzo l'appoggio dei suoi pochi, ma decisivi, parlamentari.
Ora, attenzione. In queste ore Monti, Casini e Fini stanno definendo le candidature per la lista unica del Senato. Il leader dell'Udc continua a dire che va tutto bene, sono tutti amici e quello che scrivono i giornali sono fandonie. «Non esiste una quota Udc al Senato». Dice. Però qualcosa delle trattative trapela e non è un caso che il genero di Caltagirone abbia chiesto per il suo gruppo quindici o sedici posti certi per Palazzo Madama. Fini si accontenta di meno, ma conta anche di meno. In realtà ha ragione Monti. Stanno chiedendo troppo. Ne basterebbero otto, al massimo dieci. Insomma, giusto quello che manca al Pd per provare a governare. Ogni testa chiaramente costerà carissima. Non a caso nel Pd spingono per chiudere un accordo prima delle elezioni. A carte coperte si compra a stock, in saldo e non uno alla volta. Si spende insomma di meno. Se Casini e Fini riescono a portare il loro pacchetto decisivo nel mercato che conta possono anche emanciparsi da Monti.
Se il Professore fa le bizze, loro potranno sempre giocarsi la loro partita. L'importante è ricordarsi che in democrazia non conta chi prende più voti, ma chi ha l'utilità marginale più alta. È il teorema Casini e in Italia funziona.
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