Le intercettazioni: il solito abuso da Paese incivile

Fabrizio Miccoli rischia di chiudere con lo sport, distrutto nella sua reputazione

Le intercettazioni: il solito abuso da Paese incivile

Fabrizio Miccoli, calciatore di ottimo livello, già della Juventus e del Palermo (dove fino a qualche mese fa era considerato un padreterno), ora disoccupato, rischia di chiudere con lo sport. Non ha più il fisico di un atleta professionista? Forse anche per questo. Ma soprattutto perché è stato distrutto ingiustamente nella propria reputazione. Il fatto è noto. Parlando con un amico (non un boy scout), egli ha manifestato disprezzo nei confronti del giudice Giovanni Falcone, assassinato dalla mafia una ventina di anni orsono.
Non vale neanche la pena di riferire le parole esatte uscite dalla sua bocca: sono troppo offensive nonché gratuite. Ma il problema è un altro. La telefonata di cui trattiamo è stata intercettata - mi auguro lecitamente - e illegalmente resa pubblica. Da chi, non si sa. More solito. Cosicché tutti, ma proprio tutti, si sono scagliati contro Miccoli, trasformandolo in dieci minuti da idolo degli stadi a simbolo del male. I media dell'Italia intera poi hanno contribuito a linciarlo.

Lui ora è considerato un reietto e i suoi tentativi di rimediare alla topica con una conferenza stampa sono risultati fallimentari. Non è nostra intenzione difendere l'ex giocatore rosanero per i concetti espressi durante la conversazione malandrina. Certe bischerate non vale neanche la pena di commentarle: conviene dimenticarle. Tuttavia giova ricordare che le intercettazioni penalmente irrilevanti non dovrebbero uscire dai fascicoli giudiziari, per cui in questa vicenda il calciatore è una vittima e non un reo.

Qualcuno obietterà che insultare un magistrato ucciso è un reato. Lo sarebbe se l'ingiuria fosse stata pronunciata davanti a più persone, alla radio, in televisione o scritta su un giornale. Si dà invece il caso che a Miccoli sia sfuggita mentre chiacchierava al cellulare, e si dovrebbe sapere che i colloqui telefonici, al pari della corrispondenza, sono affari privati e tali devono rimanere, a meno che non contengano notizie di crimini commessi o progettati. Ora, se io dialogando con un conoscente mi lascio andare a pesanti e oltraggiosi giudizi su Tizio o Caio, non violo il codice. Non solo. Ma ho il diritto che le mie opinioni, per quanto indegne, rimangano fra me e il mio interlocutore, e non siano in alcun modo divulgate.

Bestemmiare non è un esercizio encomiabile né in pubblico né in privato. Ma sacramentare in piazza e al bar comporta il pericolo di una denuncia; farlo in privato non si deve, però si può. Insomma, se si fosse rispettato il suo diritto alla riservatezza, adesso Miccoli non sarebbe al centro di una campagna che lo discredita e gli rende la vita insopportabile. È paradossale che sia lui a pagare per una battuta destinata a restare segreta e non, piuttosto, chi - delittuosamente - quella segretezza ha infranto, consegnando ai giornalisti la registrazione dello scandalo.

Questa è la vera vergogna. Del resto Miccoli è diventato famoso e importante per i gol e non per la dialettica: mai nessuno si è abbeverato alla sua fonte culturale, ben sapendo che sarebbe morto di sete. Sputtanare un calciatore perché ha detto una bischerata è un'operazione incivile, ma perfettamente coerente con l'inciviltà di un Paese che usa le intercettazioni (abusandone) come un ventilatore nel quale gettare sterco per lordare chiunque.

Un Paese che, da quando si è dato addirittura un'authority per proteggere la privacy dei cittadini, non fa altro che calpestarla, trascurando l'esigenza di disciplinare la delicata materia della giustizia «auricolare». Se il governo c'è, si svegli o sia il Parlamento a svegliarlo.

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