
Milano corre e solo chi corre può inciampare – magari nelle sue stesse stringhe.
Tutto il resto, gli elogi della lentezza e le consolazioni di chi guarda la pista da lontano, è un conforto da messicani dopo la siesta.
Fuor di filosofie d’accatto, Milano non è mai storicamente cambiata: è sempre stata poco inclusiva e molto premiante soltanto per chi si faceva e fa il mazzo, è meritocratica per definizione. Ovvio che, da sempre, generi invidia: anche se invidia (magari sociale) non è neanche il termine corretto, perché l’invidia è spronante, è un incentivo che pone delle ambizioni e degli obiettivi: sull’invidia (sana) hanno fondato il sogno americano. In psichiatria parlerebbero semmai di gelosia: non il desiderio di avere quello che hai tu, ma il desiderio che tu non ce l’abbia più.
L’espressione migliore è tedesca, ed è «schadenfreude»: significa provare piacere per la sventura altrui, che a ben vedere è il sottotesto di molti commenti letti sui giornali (tutti i giornali) e di molte reazioni che all’apparenza parlano d’altro, di «gentrificazione», di classe media schiacciata in periferia (come se esistesse ancora, la classe media, e non fossimo tutti neo-proletariato) col risultato che ogni crepa milenese viene raccontata come un crollo, ogni indagine si fa allegoria, ogni inciampo la fine di un mito.
Tutti sdottoreggiano ma non ce n’è uno che sappia anche spiegare decentemente in che cosa consistano le evanescenti accuse della procura: a meno di intendere che fare anche i propri interessi, contemporaneamente a quelli della città, sia diventato un reato, e che a prestazione elevate non debbano corrispondere anche parcelle elevate.
Non c’è solo un risentimento da social: c’è è la ferita di chi guarda o guardava la Milano che costruiva, attraeva e brillava ma giocoforza che escludeva: dal centro, dal discorso, dal giro, dalla famosa narrazione. Continuano a chiamarla classe media, e ormai è diventata una categoria sociologica e non una realtà urbana: qualcosa che è evaporato sotto il sole del cambiamento.
Perché nel centro di Milano si lavora, ma non si abita. Meglio: si abita se si eredita, se si investe, se si partecipa ad aperitivi e apericene di chi ne fa solo prosecuzione del circuito lavorativo. Ma gli stipendi normali, gli orari normali, le vite normali, sono state spinte prima oltre la circonvallazione e poi oltre la tangenziale, poi, ancora, oltre il senso di essere a Milano. Ma anche di essere a Parigi, a Londra, a Berlino: tuttavia solo da noi si legge di gente che fa il cameriere in centro e si lamenta perché non può anche viverci. È il destino delle metropoli globali: splendide, verticali, sempre più distanti da terra. Ecco la parola, ennesimo prestito straniero: gentrificazione.
Dice che le città diventano più belle ma sono meno accessibili, più ordinate ma meno giuste, più vivibili ma non da tutti. Chi resta fuori guarda tutto con sospetto o con rancore: e non sono solo rapper, e neppure solo pendolari della malavita. Il malcontento e il livore assumono maschere piccolissimo-borghesi attraverso la retorica della mancata sicurezza e a nostalgia per un centro che non esiste più perché non è mai esistito: escludeva sempre qualcuno, soprattutto chi non teneva il passo della Milano che corre. Ma che ti corri, Milano? – lamenta il Paese con le stampelle. E così ogni cattiva notizia diventa un risarcimento simbolico, una rivincita emotiva.
Ovviamente Milano resisterà coi suoi pregi e i suoi difetti, l’unica realtà italiana davvero agganciata al destino d’Europa.
Il suo darwinismo e la sua complessità forse meriterebbero uno sguardo meno binario, meno moralista, meno provinciale, meno invidioso o geloso o «schadenfreude», insomma. Il problema del resto è sempre quello, ed è nello sguardo di chi guarda.