Se ne è andato via troppo in fretta, per uno di quei mali bastardi che ti consumano il respiro. Non era uno bravo ad arrendersi. Non era nel suo carattere. Giorgio Stracquadanio lo conosci dai primi anni '90. Più vecchio di te, ma con lo stesso marchio radicale, libertario, antiprobizionista. Non è mai stato un disilluso, anche quando le sue idee di rabbia e coraggio andavano a sbattere contro un muro o rimbalzavano sulla frontiera dei luoghi comuni. Non era uno da passi indietro sulle idee. Tante polemiche, tanti faccia a faccia in tv e sui giornali, con quelli del Fatto o con cavalieri che si muovevano ai confini del suo stesso schieramento come Garimberti e Amiconi. Poi, fuori dal ring della politica, si faceva dolce, sereno, un amico.
Nei corridoi de L'opinione stava ore a raccontarti la politica come fosse una partita a scacchi, mosse, strategie, ma con l'idea che la posta in gioco erano le idee, i valori. Non aveva paura di dire cose che irritavano dannatamente i suoi avversari, spesso sul filo del paradosso o della provocazione. «È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l'intelligenza o la bellezza che siano. È invece sbagliato pensare che chi è dotato di un bel corpo sia necessariamente un cretino. Oggi la politica ha anche una dimensione pubblica. Ci si presenta anche fisicamente agli elettori. Dire il contrario è stupido moralismo». È disincanto, ma è difficile negare che le leggi del «consenso» sono anche questo.
Nel 1996 si candida alla Camera con il Polo delle libertà. Non ce la fa. Deve aspettare dieci anni per entrare in Parlamento. Al Senato, nel 2006. È un falco berlusconiano. Non ama la politica da «democristiani». Lo scrive nei suoi editoriali. Nel 2009 fonda il Predellino. Solo che il Pdl non assomiglierà mai al suo partito ideale. Quando nel novembre del 2011 il governo Berlusconi entra in crisi lui non vuole gettare la spugna.
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