"Non credo nella giustizia. Mi vedo sindaco di Milano"

Intervista a Giulia Ligresti. Gli arresti, l'assoluzione e le missioni umanitarie. "Trattata da criminale, non chiamatelo "errore"

"Non credo nella giustizia. Mi vedo sindaco di Milano"

Giulia Ligresti è una manager molto stimata, è un'artista del design, impegnatissima in azioni umanitarie in ogni parte del mondo, madre di tre figli. Suo padre è Salvatore Ligresti, uno dei più grandi imprenditori lombardi del dopoguerra. Quando era ragazzina sua madre fu sequestrata dall'anonima sequestri e tenuta prigioniera per 50 giorni. Tutta la sua famiglia, nel 2013, è finita sotto il tiro della Procura di Milano, travolta dall'inchiesta giudiziaria sulla Fondiaria Sai. Lei è stata messa in carcere due volte, prima in custodia cautelare due mesi, poi per scontare la pena, patteggiata, di due anni e otto mesi. Accusata di aggiotaggio e falso in bilancio. Infine assolta. In marzo è uscito in libreria un suo libro autobiografico (Niente è come sembra, edizioni Piemme) che racconta la sua vita. Avrebbe tutti i motivi per essere furiosa, invece oggi è una donna serena, forte e persino ironica.

Prova rabbia per quello che è successo a lei e alla sua famiglia?

«No».

Come è possibile?

«Ad aprile sono stata a Betlemme per un progetto dell associazione Realmonte a favore di bambini che arrivano da Gaza. Sono bambini con traumi da guerra terribili. Un giorno questi bambini dovevano fare un lavoro grafico usando la loro fantasia. Tutte le bimbe - tutte - hanno disegnato dei cuori. Capisce la purezza di questi bambini? Una di loro, Maya, mi ha preso per mano, mi ha portato in un angolo della stanza, poi dalla tasca ha estratto un pezzettino di legno a forma di luna, e me lo ha donato. Lei ha fatto un regalo a me, lei ferita, lei terrorizzata, lei che aveva perduto i genitori, lei che aveva visto le bombe, lei che non possedeva nient'altro che quel pezzettino di legno! Non potete avere idea di quanto ho pianto».

Perché mi ha raccontato questa storia?

«Che ci fai della rabbia? Impara dai bambini».

Cosa c'è nel suo futuro?

«Vorrei fare il sindaco di Milano».

Dice davvero?

«Sì, mi piacerebbe molto fare il sindaco di Milano. Io amo Milano. Amo i milanesi. Li conosco. Ho molte idee su Milano. Credo che sarei un buon sindaco».

Si candiderà?

«Vediamo...».

Mi parli di suo padre.

«Un papà geniale. Uno degli imprenditori più moderni che ci sia mai stato in Italia».

Cosa le ha insegnato?

«Tante cose. Tra le altre mi ha dato la visione dell'imprenditore».

In che consiste?

«Avere progetti. Sempre».

Oggi quali sono?

«Le dicevo che sono stata recentemente a Betlemme per occuparmi dei bambini di Gaza. Andrò presto in Siria. Sono stata in Afghanistan, in India, in Etiopia».

Perché?

«Non sopporto le ingiustizie. Non sopporto la mancanza di libertà».

La mancanza di libertà l'ha vissuta sulla sua pelle.

«La mancanza di libertà io l'ho vissuta per mesi, un periodo breve rispetto a Paesi del mondo in cui la mancanza di libertà è la norma quotidiana. I Paesi più poveri sono quelli meno liberi. Doppia ingiustizia».

Parliamo del suo arresto.

«Quando sei innocente, quando sai di avere fatto sempre le cose per bene, non ci puoi credere Ti vengono a prendere la mattina all'alba, a casa. Ti svegliano. Erano 12 persone. Nemmeno fossi un pericoloso criminale! Io ero sconvolta. Non capivo. Ho preparato una sacca, ti portano via. Ti sbattono in questo luogo infernale. Non ti orienti. Hai paura. Sei sola. Hai lasciato i ragazzi a casa, non sai cosa stanno facendo. Leonardo era piccolo, aveva 11 anni».

Dopo un periodo di carcerazione preventiva lei ha patteggiato.

«Sì. Quando mi è stata offerta la possibilità di patteggiare per uscire. Libertà in cambio di rinuncia alla mia difesa».

Ha preferito non difendersi?

«Sono arrivata all'interrogatorio dopo essere stata prelevata dalla mia cella alle 5 del mattino, trasportata al tribunale di Torino e poi fatta aspettare in una cella nei sotterranei. Sono stata messa di fronte a due possibilità. La prima era continuare a difendermi e restare in carcere. La seconda era di rinunciare a difendermi, accettare la condanna e uscire in tempi più ragionevoli».

Ha confessato cose che non ha fatto?

«Mi hanno dettato loro le risposte. Ho sottoscritto frasi con affermazioni false. Ero a un bivio: patteggi ed esci oppure non patteggi e resti in cella».

Lei ha fiducia nella giustizia?

«Direi di no».

Dopo cinque anni dalla scarcerazione un nuovo arresto. Per scontare la pena che ha patteggiato. Le vengono rifiutate le pene alternative, i servizi sociali. Perché?

«È una prassi affidare ai servizi sociali per pene inferiori ai 4 anni. Loro hanno detto di no, hanno detto che non avevo cambiato stile di vita, hanno sottolineato la mia particolare devianza, il mio profilo criminale, hanno detto che l'affidamento ai servizi era una pena troppo poco afflittiva. Capisce? Hanno scritto così, hanno usato queste parole. Pena afflittiva. Ma cosa hanno capito questi giudici della Costituzione? Mi mettono in cella perché non ho cambiato stile di vita!».

Dopo poche settimane di cella, quando temeva di doverci restare più di due anni, è arrivata l'assoluzione piena e definitiva e lei è uscita.

«Sì. Assolta del tutto perché il fatto non sussiste. Errore giudiziario, se vogliamo chiamarlo errore. Perché insomma, ce ne vuole di buona volontà per chiamarlo errore».

È vero che il suo mito è Nelson Mandela?

«Lui è riuscito a resistere 27 anni in quel carcere. E dopo è diventato l'immenso Mandela. Lo dicevo sempre alle ragazze detenute insieme a me quando camminavamo in cortile durante l'ora d'aria».

Come era il suo rapporto con le altre detenute?

«In carcere ho trovato delle compagne. Delle amiche».

Me ne descriva qualcuna.

«Enza mi dava la buonanotte tutte le sere. Dicono che fosse la più pericolosa. Chissà. Io le traducevo dall'inglese delle canzoni per il suo fidanzato. Lei gridava a squarciagola dalla cella accanto: Buonanotte, Giulia!».

Sua mamma la chiamavate Bambi.

«Donna fantastica, dolcissima».

Cosa è stato per una bambina sapere che la mamma era ostaggio dei rapitori?

«Avevo un papà fortissimo. E lui aveva accanto una persona straordinaria a come il commissario Achille Serra che si occupava del caso. Io sapevo che avrebbero risolto».

Quella

notte che ha visto sua madre insanguinata, con le corde che le scendevano dai polsi?

«I ruoli si erano ribaltati. Ho sentito che dovevo essere io a proteggerla. Lei è stata il mio più grande esempio di resilienza».

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