N on tutti vogliono morire renziani. Questo naturalmente vale a destra, ma ancora di più a sinistra. Eppure quando manca poco alle elezioni europee nel Pd si comincia a vivere questa rivoluzione antropologica con una certa rassegnazione. Quali mosse, quale spazio di azione, ha chi oggi vuole opporsi al segretario?
La breve stagione delle dimissioni è morta lì, senza lasciare traccia o costruire un'alternativa. Si è dimesso Fassina dal vecchio governo Letta, ma non è diventato un punto di riferimento. Cuperlo ha lasciato la presidenza del partito, ma è stato seppellito dall'alzata di spalle di Matteo, che significa «pazienza» e «ce ne faremo una ragione». I giovani turchi sono più integrati che apocalittici. D'Alema sospira soddisfatto per il traguardo, sempre più vicino, di una pensione europea. Letta e i lettiani al massimo posso sperare in una vendetta da gustare fredda, ma c'è ancora da aspettare parecchio. Bersani è tornato. È un'oasi di ristoro. Ha il rispetto che si deve a un brav'uomo, ma come bandiera sa più di nostalgia, un po' come accade con le patrie perdute o sconfitte. Renzi ha scalato il partito, si è preso il governo, ma soprattutto sta formattando la cattedrale culturale della sinistra. Impone la sua visione del mondo. La sua conquista - ricordano gli anziani - assomiglia parecchio allo spirito craxiano del '76, quando in un attimo consegnò alla storia il vecchio Psi nenniano. La normalizzazione del partito passerà per la nomina del portavoce del Pd, Lorenzo Guerini, ex giovane democristiano, ex sindaco di Lodi, a coordinatore. Il portavoce che diventa capo supplente del partito è un messaggio diretto e preciso. È come dire al mondo: io sono solo la voce di Renzi. Il secondo passo è scegliere come nuovo portavoce, queste perlomeno sono le indiscrezioni, Debora Serracchiani, che si muove all'incrocio di molte correnti.
Allora cosa possono fare quelli che non vogliono morire renziani? La risposta d'istinto è: gufare. Non è bello ma si fa. Questo significa sperare nell'improbabile scivolone alle europee. Bisogna però dare alla caduta un valore quantitativo. Alle ultime elezioni il Pd ha preso il 25 per cento. È da lì quindi che si parte. L'ultimo dato europeo è invece quello del Pd di Franceschini, ventisei per cento. Il terzo è la conquista della corona di primo partito e la distanza dal secondo. Un Renzi che non supera il 27 per cento già si fa male. Al 26 peggio. Al 25 deve inventarsi ottime scuse. Al di sotto è morto. L'altro rischio è l'ottimismo degli uomini di Matteo, che per amore della sfida o masochismo inconsapevole continuano a parlare di 30 per cento, fissando in questo modo una soglia più alta e rischiosa. Cosa accade se Renzi, per esempio, prende solo il 26 per cento? Come assicura chi lo conosce bene l'insidia non sono gli altri, ma lui stesso. «Matteo sbrocca». Sbrocca sia come leader di governo che come leader di partito. Non potrebbe sopportare il Vietnam di una maggioranza in teoria amica ma che gli renderebbe ogni giorno la vita impossibile. Accadrebbe ogni volta quello che è successo con la legge elettorale. Fiducia risicata, numeri che ballano pericolosamente sul net, come una pallina da tennis che non sa se cadere da una parte o l'altra del campo. Ricatti, ricattini, pressioni, paure. Renzi diventerebbe un leader troppo debole per realizzare un programma di governo ambizioso.
Dovrebbe accontentare oggi Alfano, domani i sindacati, dopodomani gli industriali, poi i grandi burocrati, poi Moretti, poi l'Europa e ogni santo giorno il primo che nel Pd punta a relegarlo come una simpatica anomalia, una parentesi, nella storia della sinistra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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