Perché la sinistra odia la Meloni

Su ogni argomento la sinistra ha quasi sempre scelto la strada della denigrazione personale

Perché la sinistra odia la Meloni
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L'odio, purtroppo, fa parte da sempre della politica. E, nell'era dominata dai social, ha moltiplicato la propria pervasività. Il disprezzo per chi non la pensa come te (e la cattiveria del linguaggio) sono così diventate la colonna sonora delle relazioni pubbliche. Anche in Italia, dopo la fine dalla Prima Repubblica, l'invettiva ha spodestato qualsiasi ragionamento obiettivo. La conseguente guerra civile verbale tra destra e sinistra ha così trasformato il nostro sistema in una sorta di «bipolarismo bellico». Ultimo rilevante esempio è l'atteggiamento riservato dall'opposizione alla figura di Giorgia Meloni. Su ogni argomento, infatti, la sinistra ha quasi sempre scelto la strada della denigrazione personale. Da «presidente del coniglio» (Schlein) a «serva di Trump» (tutti) fino all'elegantissimo «statista della Garbatella» (Renzi) sembra quasi essersi aperta una gara a chi propone l'attacco più oltraggioso. Si dirà: non è una novità. Ogni volta che al governo va la destra la sinistra frequenta l'incubo di una presunta «svolta autoritaria» contro la quale opporsi con ogni mezzo. Anche a Silvio Berlusconi, del resto, fu riservata un'overdose di contumelie. Ma c'è una differenza. Per la sinistra, il Cavaliere funzionava anche come alibi. Non era un politico, ma un imprenditore miliardario. Un tycoon della tv. Aveva vinto grazie all'antipolitica. Come dire: che potevamo farci? Siamo stati sconfitti da un «nemico esterno». Con Giorgia Meloni non è così. La premier mangia pane e politica da quando è adolescente. Un «nemico interno», dunque, che toglie alla sinistra ogni alibi. Stavolta è la politica ad aver battuto la politica. Per capire il senso di tale spiazzamento basta scorrere la storia degli ultimi trent'anni: solo per sette di questi l'Italia ha avuto premier «politici». Per i restanti ventitré (!) sono invece approdati a Palazzo Chigi sempre leader extrapolitici. Una grandissima anomalia. Interrotta, appunto, da Giorgia Meloni. Si tratta di una storia che meriterebbe, da parte della sinistra, un'attenta riflessione sul proprio profilo strategico e sul destino del sistema italiano. Macché. Al contrario: essa si è volentieri lasciata travolgere da una sorta di «sindrome di Procuste», un mix di invidia patologica e di complesso dinferiorità che hanno prodotto solo un ostinato risentimento contro chi l'ha battuta. Con il conseguente riflesso di dover occultare o minimizzare ogni suo gesto politico. Come diceva il poeta latino Ennio, «si odia chi si teme». Così l'opposizione politica ha finito per trasfigurarsi in una pura «opposizione morale». Di rado formula ipotesi alternative a quelle del governo: piuttosto persegue l'obiettivo di suscitare, su ogni argomento, ondate di forte indignazione. Ad esempio, per avvalorare la tesi dell'«isolamento internazionale» (presunto effetto del governo Meloni) nega qualsiasi, pur evidente, successo diplomatico della premier (da ultimo l'intesa con Merz). Ma non sono forse successi per tutto il Paese? Ancora: ignorando le ferme prese di posizione sull'Ucraina, e gli ottimi rapporti che aveva anche con Biden, preferisce dipingerla come «vassalla di Trump». Ma la necessità di tenere unito l'Occidente è solo un pensiero capriccioso della premier? Infine, delle due l'una: se la Meloni tradiva l'Italia non votando la von der Leyen, come può tradirla anche oggi, sui dazi, muovendosi in assoluta sintonia con la presidente della Commissione? La propaganda oltraggia ogni logica. Il fatto è che l'opposizione politica è decisiva per la salute di ogni democrazia. Se invece trasforma il suo ruolo in una sorta di inquisizione morale finisce per creare notevoli danni all'intero sistema. Torna allora utile ricordare un pensiero di Gramsci: «Se si vuole diminuire l'influsso politico di una personalità o di un partito non si tenta di dimostrare che la loro politica è nociva ma che determinate persone sono canaglie. È una prova di livello ancora basso della vita nazionale». E gli faceva eco Paul Valéry denunciando come, nella politica, «un atteggiamento di permanente indignazione denota grande povertà mentale».

Ecco allora il punto: l'Italia di oggi di tutto ha bisogno meno che di povertà mentale. Se vogliamo avere un ruolo nel mondo che cambia, la concretezza deve diventare la stella polare di tutta la politica. L'indignazione permanente non è, e non può essere, un progetto di governo.

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