La preoccupazione del Cav: "Il rigore è dannoso"

Per l’ex premier guai a sottovalutare il disagio sociale: "Un terreno che può favorire il terrorismo. L’unica via d’uscita sono le politiche per la crescita". Berlusconi: "Voteremo quello che ci convince"

La preoccupazione del Cav: "Il rigore è dannoso"

Roma - Dalla disperazione al piombo il passo non è poi così lungo. E se i volantini con le sinistre cinque stelle, le gambizzazioni, le lettere minatorie fossero solo le prime nuvole nere all’orizzonte che preludono all’arrivo di una tempesta? Se l’Italia si trovasse di nuovo a vivere la follia del terrorismo, il più drammatico capitolo della sua storia recente che si pensava irripetibile (storia, appunto)? Silvio Berlusconi un po’ di paura ce l’ha, anche se non la mette giù troppo dura. «Il ritrovamento dei volantini Br a Milano è solo un episodio», esordisce davanti ai taccuini spiegati dei giornalisti all’uscita dalla cerimonia funebre del senatore del Pdl Giampiero Cantoni, a cui ha partecipato con altri esponenti del partito. Un esordio tranquillizzante solo in apparenza. Per l’ex presidente del Consiglio sarebbe infatti sbagliato minimizzare.

«Ma quando c’è un clima come questo - prosegue doppiamente mesto - c’è un terreno che può dare luogo da un lato al terrorismo e da un lato alla dittatura». E se la seconda prospettiva appare ancora francamente fantascientifica, in questo momento la prima è decisamente più tangibile; e il Cavaliere al solo pensiero si incupisce: «Speriamo che non sia così perché ritengo che non sia il caso dell’Italia, ma sicuramente non è una situazione che ci lascia del tutto tranquilli».

Insomma, non terrorizzati ma preoccupati sì. La fotografia che Berlusconi scatta della nostra epoca calamitosa è virata seppia: «C’è un clima di grande timore, di grande pessimismo, di scarsa fiducia nel futuro», considera l’ex premier. E la risposta della politica è insoddisfacente, almeno in termini prettamente economici: «A questo clima dovremmo reagire, credo, con una politica totalmente diversa da quella che è la cosiddetta politica del rigore che si può applicare soltanto in una economia di sviluppo». Quindi la parola d’ordine deve essere crescita, in qualsiasi modo. Solo così si rimetterà in moto il circolo virtuoso della nostra economia, e con esso anche il benessere dei cittadini. Vista da questo punto di vista, i conti in ordine non sono certo una priorità assoluta. Un dilemma, quello tra la visione dinamica e liberale da un lato e quella ragionieristica dall’altro dell’economia nazionale che ha contrassegnato tutta l’ultima stagione del governo Berlusconi, vissuto con continue tensioni con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti; e che non smette di preoccupare l’ex premier anche oggi che si limita a sostenere il governo Monti. Un appoggio a responsabilità limitata, quasi à-la-carte: «Noi siamo qui - annuncia Berlusconi - e voteremo tutte le cose che ci convincono». Un avviso ai naviganti - inquilini di Palazzo Chigi e colleghi di maggioranza - al quale si incarica di rispondere qualche ora dopo niente di meno che Massimo D’Alema: «Ho qualche difficoltà a chiamare Berlusconi alleato - precisa l’ex leader dei Ds - convergiamo nella scelta di responsabilità. Io spero loro continuino a esercitare questa responsabilità: se cessassero, il governo cadrebbe e loro se ne prenderebbero, scusate il gioco di parole, le responsabilità».

Ma torniamo a Berlusconi. Che vede come un incubo lo spettro dell’antipolitica, che si manifesta da un lato con l’astensionismo e dall’altro con l’arrembante successo dei partiti (per usare una terminologia tradizionale) guidati da capipopolo, demagoghi, urlatori, mestatori. Anche se sarebbe sbagliato dare tutta la colpa a chi approfitta del momento di sbandamento dei partiti tradizionali: «L’antipolitica - si rammarica Berlusconi - ha scoraggiato gli italiani ed è la testimonianza che c’è un sistema che non dà agli stessi italiani quello di cui avrebbero bisogno». Un sistema «che non consente al Paese di essere governato».

Il capo del governo, chiunque egli sia, «ha come unico strumento il disegno di legge che va in Parlamento, ne esce dopo 850-900 giorni completamente cambiato rispetto a quando è entrato e poi se non piace a una certa parte politica viene impugnato, portato dinanzi alla Corte costituzionale e abrogato: questo è successo dal 2005 al 2010 ben 240 volte in Italia».

Parole che richiamano quelle pronunciate qualche settimana fa da Berlusconi in un colloquio con una giornalista di Gente, nel corso della quale aveva parlato di «un numero esagerato di piccoli partiti, che non pensano all’interesse comune ma solo a quello dei loro piccoli leader».

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