Roma non si salva con l'oro, ma con le idee

I gatti a Torre Argentina, dove fu ucciso Cesare, insegnano: non sappiamo valorizzare la storia

Roma non si salva con l'oro, ma con le idee

D ove è morto Cesare? Largo di Torre Argentina. Ma forse se lo ricordano solo i gatti. Idi di marzo del 44 avanti Cristo. Caio Giulio Cesare si gira verso Cimbro, che lo spinge con forza. È il segnale. I congiurati lo circondano e lo trafiggono con 22 coltellate. L'ultima, la ventitreesima, è quella di Bruto. È poco più di un graffio, con mano tremante. È quella che gli fa più male. Cesare si copre la testa con un lembo della toga e si lascia morire. Il sangue macchia il marmo davanti alla statua di Pompeo. Vendetta postuma. Tutto questo avviene durante una seduta del Senato. Esattamente dentro la Curia Pompeii, a Campo Marzio. Ovidio ricorda le passeggiate davanti ai quattro antichi templi dell'area sacra. Adesso li costeggiate se prendete il tram 8. La statua di Pompeo, ritrovata nel XVI secolo, è a Palazzo Spada.
Questa storia la raccontano da sempre. A voce, come memoria orale, storici, filosofi, pittori, teatro, romanzi, cinema, perfino i videogame. Solo che a Roma questo luogo, di fatto, non esiste. È muto, è buio, è invisibile. Passi lì e mica sai quello che è successo. Non frega niente a nessuno. Forse solo ai gatti. Perché loro lì, per fortuna, ci stanno, si radunano, sentono la storia. Sono anime antiche o semplicemente hanno fame e lì le gattare lasciano cibo. Cesare sarebbe contento. I gatti gli ricordano Cleopatra. Il resto è oblio. Non lo sanno i turisti, non lo sanno i romani, figuratevi il potere, soprattutto i senatori che ci passano davanti con le auto blu.
Questa è Roma. È il suo ritratto. Non siamo qui per lodare Cesare e neppure, come Antonio, per seppellirlo. Ma per fare una domanda stupida. Perché non c'è neppure uno straccio di segno che dica: qui i tirannicidi Bruto e Cassio hanno ammazzato quello che voleva farsi re (segnale a uso e consumo della sinistra). Oppure: qui hanno assassinato il più grande di tutti i romani (per quelli di destra). O semplicemente far sapere che questo è uno dei luoghi sacri della storia. Perché Cesare è Cesare e il luogo della sua morte non è inferiore come immaginario alle rovine di Troia.
È per questo che non si può piangere sul fallimento di Roma. Fa solo rabbia. Ci vuole un'incapacità speciale per far fallire una città così. Ci vuole anti-talento. E la lista degli artefici è lunga secoli. Ignazio Marino è solo l'ultimo e magari vuole passare alla storia come Romolo Augusto. Ci vuole impegno, tenacia e perseveranza per mandare in rosso un museo a cielo aperto, un museo vivente, un luogo dove ti basterebbe solo uno tra il Colosseo, San Pietro e il Foro per fare affari. Una città dove la più sfigata delle pietre ha una storia. Aspetta solo qualcuno con la voglia raccontare. Basterebbe la basilica sotterranea neo pitagorica di Porta Maggiore (chiusa al pubblico, come Domus Aurea). È più difficile far fallire Roma che Atene. In questo siamo più bravi dei greci, che pure ce l'hanno messa tutta per batterci. E se qualcuno vi viene a dire che con la cultura e con le storie non si mangia, chiedete a Parigi, a Barcellona, a Berlino. In Nuova Zelanda si sono inventati di essere la Terra di Mezzo.

Noi stiamo qui a chiederci come salvare Pompei o Venezia. Ecco perché il «salva Roma» è una bestemmia, un'umiliazione. Roma non si salva con l'oro, ma con le idee. E Furio Camillo non è solo la fermata della metropolitana.

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