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Se gli "scarti" di Pompei fanno ricchi gli inglesi

Incredibile ascesa del British Museum di Londra: merito della mostra sulla città vesuviana. Che l'Italia è incapace di gestire

Scultura di marmo proveniente da Ercolano esposta al British Museum
Scultura di marmo proveniente da Ercolano esposta al British Museum

Bastano pochi numeri per sbriciolare, neanche fosse un muretto di Pompei, la retorica sui Beni culturali come petrolio dell'Italia, sul patrimonio artistico come bene comune. Ad esempio, guardando la classifica dei musei più visitati nel 2013, pubblicata da Il Giornale dell'Arte, appare evidente che, sì, i nostri Beni culturali sono il petrolio. Ma dell'Inghilterra. Infatti il British Museum strappa la seconda posizione al Metropolitan di New York facendo segnare un clamoroso incremento del 20 per cento tra i visitatori. Merito (anche) di Life and death in Pompeii and Herculaneum, aperta dal 28 marzo al 29 settembre. Sponsor: Goldman Sachs. Obiettivo dichiarato: 250mila spettatori. Raggiunto dopo neanche tre mesi. Totale: 471mila. Terzo miglior risultato di sempre, dopo Tutankhamon e l'esercito di Terracotta. Dalla mostra, è stato tratto un film-evento proiettato in 51 Paesi. In Italia, è rimasto nei cinema per due giorni, registrando una media (copia per sala) superiore a quella di Checco Zalone. Il merchandising è tuttora in vendita, nei negozi londinesi e nel sito dell'istituzione britannica. Incalcolabile quanto tutto ciò abbia fruttato, ma stiamo ragionando di circa 10 milioni di sterline. Il materiale esposto nella capitale di sua Maestà era certamente prezioso ma vale la pena ricordare che proveniva, in prestito gratuito, soprattutto dai depositi di Pompei.

Il Guggenheim di New York, nella stessa classifica, occupa la 51ª posizione, ed è in calo rispetto all'anno precedente. Per rilanciarsi ha scelto di mettere nel motore il petrolio dell'Italia: Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe sarà in cartellone fino a settembre. I conti si fanno alla fine. Per ora possiamo facilmente costatare come questa retrospettiva abbia avuto una risonanza superiore a quella delle disordinate celebrazioni italiane per il centenario del movimento fondato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti.

I musei italiani si difendono, con netta prevalenza di Firenze e Torino sulle altre città italiane. Il trend è negativo, con qualche eccezione. Il primo ad apparire nella top list è la Galleria degli Uffizi, in 26ª posizione. In sostanza siamo fermi, in qualche caso immobili. La Pinacoteca di Brera ha avuto 249mila ingressi come l'anno precedente. La si può vedere in due modi. Ottimista: ha resistito alla crisi. Realista: peggio di così un museo bello come Brera non può proprio andare, neppure sforzandosi.

Il limite inevitabile della classifica è che non può tenere conto della diversità fra strutture enormi come il Louvre (primo anche se in calo) di Parigi e gli Uffizi di Firenze. Lo ha fatto notare anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Ovvietà a parte, la top ten, con l'ascesa del British, contiene una dura lezione. Con i nostri «scarti» gli altri Paesi costruiscono fortune. Le istituzioni pubbliche non si vergognano di farsi sponsorizzare, di far pagare il giusto (15 sterline), di vendere tazze col mosaico, di inventarsi idee originali come il film, di farsi pubblicità, di adottare una strategia mondiale di comunicazione. La gente accorre. Ben lieta, dispiace dirlo, di trovare, fuori dal British, Londra e non i parcheggi abusivi di Pompei.

Tutto questo però insegna nulla. Il copione resta sempre il solito: crollo del muretto, frinire di cicale indignate, inchieste giornalistiche, pomposi convegni sul patrimonio artistico, vuote dichiarazioni d'intenti, libelli-fotocopia, demonizzazione dei privati, ostacoli burocratici devastanti per chiunque abbia una proposta concreta, spreco dei pochi fondi disponibili.

E così via. Per sempre?

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