Anche quando parla, tranquillamente seduto davanti al tavolino da trucco che adesso lo tramuta in Ray Charles e tra un attimo in Adriano Celentano, Teo Teocoli è uno straordinario spettacolo vivente. È sempre alto, slanciato, bellissimo, con un fisico intatto da giocatore di rugby e due accattivanti pupille da furetto smaliziato e sorridente. Ma basta rivolgergli una domanda sottilmente inquisitoria ed ecco quella sorprendente faccia da bel tenebroso sprizzare da tutti i pori l'inquietante vitalità di un volto di gomma alla Buster Keaton se non, addirittura, alla Lon Chaney passato alla storia di Hollywood come «l'uomo dai mille volti». Glielo dico, ed ecco subito Teocoli rammaricarsi che il grande attore made in Usa ormai sia noto da noi solo a un esiguo gruppo di cinefili sennò, dice lui, sarebbe splendido farlo rivivere in scena truccato da Quasimodo in Notre Dame de Paris.
Non si rattristi, caro Teo, lei ormai ha ben altri compensi, no?
«Sono un uomo semplice, ma un artista ambizioso cui piace sempre, non appena ne sente l'odore, raccogliere le sfide. Fin da quando, a otto anni, appena arrivato in Lombardia scoprii, nella bella periferia di allora colma di verde e sgombra di cemento, l'esistenza dell'altalena...».
Altalena?! Ma come, non ne aveva mai sentito parlare?
«Ero un ragazzino di campagna che veniva dal Sud. Allevato da una nonna meravigliosa che si era accollata con gioia il compito tutt'altro che facile di prendersi cura di un discolo come me, lasciatole in custodia dai miei che si erano arrampicati lungo lo Stivale fino a Milano. Accanto a lei, che a sessant'anni suonati, quando era libera dal lavoro si scioglieva dei capelli color delle nuvole facendoseli spiovere fino al suolo, di altalene non ne sentivo il bisogno. Mi bastava lo spettacolo della sua avvenenza. Mia nonna per me significò la scoperta del fascino delle donne».
Sia pure, ma... e l'altalena, allora?
«Quando raggiunsi i miei a Milano dopo giorni e giorni di viaggio, una mattina vidi sui praticelli che costeggiavano casa nostra una splendida quercia da cui pendevano due aste e un sedile. Sul quale era issato un bambino dall'aria dapprima corrucciata e poi sorridente spinto in aria con forza da una signora tanto bella da parere una fata. Io la guardavo sbalordito e credevo di sognare. Chissà cos'è quella roba lì, pensai, e rimasi di stucco quando lei mi chiamò da lontano invitandomi a prendere il posto di quel bimbo fortunato. L'altalena, a quei tempi, fu per me il simbolo della gioia».
E in seguito?
«In seguito venne il calcio coi miei compagni nei campetti. Una bellezza semplice, schietta, assoluta. Controbilanciata, purtroppo, dalla scuola. Studiavo ragioneria, ed ero pessimo. Tanto che non vedevo l'ora di andarmene. Fu il mio insegnante, un giorno, a provocarmi dicendo "Ma tu, Teocoli, saprai pur fare qualcosa nella vita..." Io presi la palla al balzo, e gli risposi digetto "Coi numeri non ci so fare, ma con le canzoni me la cavo bene"».
E lui come reagì?
«Mi costrinse ad esibirmi davanti a tutta la classe».
Fu una rivelazione?
«Fu una vergogna, avevo una fifa maledetta. Ma al professore non dispiacqui affatto. Tanto che, a fine trimestre, invece di segnarmi zero in pagella, mi diede due "ma solo per meriti artistici"».
Da allora, penso, non avrà smesso di cantare...
«Modulavo due note sul bagnasciuga a Rimini per sedurre le ragazze quando, con la banda dei miei coetanei, a diciott'anni scappavamo in scooter in Romagna per fare il filo alle tedeschine che guardavano incuriosite i mutandoni di lana fatti in casa che indossavamo al posto degli slip. Sa, a quei tempi, non c'era ancora il terital. Che felicità quando lo scoprimmo!».
E la vocazione teatrale?
«Tutta milanese. Senza il Derby Club di Gaber, di Jannacci e di Cochi e Renato, non so cosa sarebbe stato di me. Invece mi andò bene. E fu una pacchia. Per evocarlo, adesso che giro l'Italia col mio show, ho inserito nel programma in sintonia con Armando Celso che mi fa da spalla col suo imperturbabile aplomb "Nilo blu", la canzoncina di Ripp che diventò il nostro leit motiv assai prima che se ne impadronisse Toni Barlocco, l'indimenticabile Mabilia dei Legnanesi».
Ha mai pensato di lasciare Milano?
«Non si abbandona mai la prima amante. Quella che ci ha fatto conoscere la nebbia dalla quale spuntavano, come tanti funghi, i cinemini da cento lire dove si andava a baciare la morosa».
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