«Io, giocatore ribelle sempre a rete e con al collo un dente di pescecane...»

Gianni Clerici incarna molte anime: c’è il poeta che ricevette l’apprezzamento di Giovanni Raboni e Attilio Bertolucci; lo scrittore leggiadro ed elegante che dopo «Mussolini. Ultima notte» - una sorprendente incursione nella mente del dittatore prossimo alla fine - sta lavorando a un libro di racconti («L’uccello della Gioconda») e a un romanzo ambientato in Australia. E se molti conoscono l’esperto di tennis che commenta in tv al fianco di Rino Tommasi, pochi sanno che quella competenza si avvale di una carriera agonistica d’alto livello con un interessante capitolo milanese. Mentre si profilano all’orizzonte gli anni Cinquanta, il sedicenne Clerici da Como è infatti un promettente giocatore di seconda categoria che, come tutti i giovani più interessanti della Lombardia, approda al Tennis Club Milano. Lì ritrova l’allenatore Valentino Taroni, ex raccattapalle scalzo a Como e poi campione italiano nel 1937. Per i colori della società milanese Clerici si aggiudica un Campionato junior a squadre e una Coppa Croce. Classificato in seguito tra i migliori giocatori italiani, ottimo doppista con sei tornei internazionali vinti, Clerici si batte al fianco di Fausto Gardini, Bitti Bergamo e Orlando Sirola. A 24 anni il futuro Vecchio Scriba, dopo aver partecipato a due edizioni di Wimbledon, si ammala gravemente con diagnosi di morte. Lascia quindi il tennis e approda al giornalismo.
Ma che tennista era Gianni Clerici?
«Uno dai gesti eleganti, sempre a rete. Poco fisico, molto fumo».
Bel fumo?
«Bellissimi gesti... poi ero un ribelle, antesignano degli hippy: la fascia a fermare i capelli lunghi, al collo portavo un dente di pescecane».
Di pescecane davvero?
«Nooo, di maiale. E mi allenavo con dei pantaloncini da mare, a strisce colorate, in un’epoca votata al bianco rigoroso».
Scandalo...
«Il Conte Bonacossa fu amabile nel suo richiamo: ordinò a un inserviente di allineare al sole tutte le sedie a sdraio. Mi disse “Temevo che avessi ricavato i pantaloncini da una di queste”».
E che aria si respirava in via Arimondi?
«Intorno alla piscina si muovevano le più belle debuttanti della borghesia cittadina, ricordo Ornella Vanoni. Poi c’era Guido Rocca, figlio d’arte teatrale. Inseparabile da un giovane non meno affascinante, Adolfo Covi. Giocavano bene a tennis, scrivevano meglio, ma la loro attività fondamentale era la seduzione».


La Milano di quei tempi?
«Una città estremamente viva, frequentavo il Piccolo Teatro, ero amico di Walter Chiari e di Gianni Brera che mi aveva chiamato diciottenne alla Gazzetta dello Sport quando ancora facevo i tornei. Fu Brera nel 1956 a farmi assumere a Il Giorno, che era appena nato».

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