Kyoto, Bush non cambia idea

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Non c’è ancora accordo, alla vigilia ormai del G8 in Scozia, su quello che è, o dovrebbe essere, il tema centrale dell’incontro fra i Ricchi del pianeta: il tema ecologico nel suo aspetto considerato da molti più urgente e cioè il surriscaldamento dell’atmosfera. Su otto partecipanti sette troverebbero facilmente un’intesa e un documento comune da firmare: Giappone, Canada, Russia, Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna, che ha quest’anno la presidenza. Ma manca l’assenso del «numero uno»: gli Stati Uniti. Bush non sembra disposto a concessioni significative e le speranze non crescono con il trascorrere dei giorni e, ormai, delle ore.
L’ultimo appello è venuto dalla «vecchia Europa», continentale: dall’incontro triangolare fra Vladimir Putin, Jacques Chirac e Gerhard Schröder a Kaliningrad, nella enclave russa sul Baltico in quella che era la Prussia Orientale ed è tuttora più nota al resto del mondo come Koenigsberg. I leader di Francia, Germania e Russia chiedono all’America di fare un passo concreto in avanti. Più o meno la stessa cosa che chiede Tony Blair una volta tanto più in sintonia con l’Ue che con gli Usa. Il premier britannico si presenterà infatti domani l’altro a Gleneagles con due cappelli: di organizzatore del G8 e di leader pro tempore di un’Europa in cui è sospettato di non credere molto e in cui sente pertanto la necessità di guadagnarsi i galloni.
Al punto che il premier britannico ha lasciato vagamente circolare un «ultimatum» in cui pochi credono: l’approvazione al vertice di un documento con sette firme, cioè senza quella di Bush. In realtà Blair è ben conscio che una soluzione del genere non sarebbe pratica, lo ha ripetuto più volte: «Senza il consenso degli Stati Uniti non ci sono soluzioni a questo problema globale. Sappiamo già che gli Stati Uniti non firmeranno il Protocollo di Kyoto perché l’hanno detto chiaramente. E non si tratta solo di Bush: il Senato di Washington ha votato contro Kyoto con cento voti contro zero».
Il Protocollo, si ricorderà, mira a limitare le emissioni di anidride carbonica, considerata responsabile dell’«effetto serra». Il no americano è giustificato con le conseguenze negative che le restrizioni avrebbero sullo sviluppo economico; un’obiezione condivisa fino a qualche tempo fa dalla Russia, prima che Putin si allineasse.
Ora il testo della dichiarazione comune preparato dai tecnici e dai diplomatici di carriera specifica che «il cambiamento del clima è una seria sfida a lungo termine, che minaccia ogni parte del mondo. Ci sono ora prove concrete che è in corso un riscaldamento globale in parte dovuto all’attività umana». Sono queste ultime parole che Bush non accetta, perché esse comporterebbero misure severe come limiti obbligatori alle emissioni dei gas accusati di produrre l’«effetto serra». Il massimo che l’America è disposta a concedere sono limitate misure unilaterali. È probabile che, per motivi diversi, la tesi della Casa Bianca trovi a Gleneagles il consenso degli «invitati», Paesi come la Cina, l’India, il Brasile, il Messico e il Sudafrica, che hanno cominciato da poco il loro sviluppo industriale e non intendono e non amerebbero veder imporre limiti alla loro rincorsa. Ma si tratta, appunto, di ospiti che non votano.
I sette hanno proposto invece che il documento cominci con una constatazione impegnativa: «Il nostro mondo si sta riscaldando».

La delegazione americana vorrebbe stralciarla e adottare invece una formula più flessibile (che riconosce la «necessità di rallentare, arrestare e poi invertire il processo di crescita dei gas serra»: parole prese quasi di peso dal discorso di Bush del 14 febbraio 2001, quello che sconfessò il Protocollo di Kyoto).

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