Controcultura

L'"Abete" per Dante? Non andrà in Paradiso

In Piazza della Signoria a Firenze quell'albero è fuori posto. E poi somiglia a Spelacchio...

L'"Abete" per Dante? Non andrà in Paradiso

Questa volta non bastano la mia simpatia per Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, e nemmeno la mia amicizia per Dario Nardella, sindaco di Firenze, per giustificare la scelta sgradita ai fiorentini, almeno quanto l'invereconda pensilina di Isozaki, di innalzare l'albero intirizzito e spoglio di Giuseppe Penone in piazza della Signoria. È la seconda volta che i fiorentini insorgono, in difesa della loro città, e della integrità degli spazi urbani, dalla irruzione di corpi estranei e autoreferenziali che hanno la presunzione di dire cose alte e nobili al di là di ciò che si vede. Difficile da difendere.

Che cosa si vede? Una pianta, alta 33 metri, secca, con rami penduli. Così la descrive Giulia Ronchi su Artribune: «Insomma, nessuna raffigurazione dell'Eden idilliaco nel lavoro di Penone che, lo ricordiamo, non si tratta di un vero albero, bensì di una scultura realizzata tramite fusione di acciaio inossidabile, attorniata da un reticolo che le conferisce un senso ascendente. I 18 elementi che la avvolgono, come se fossero gradini, invece, sono stati modellati in bronzo, con un procedimento di fusione da calchi di bambù. Niente vegetazione rigogliosa e atmosfera esotica, quindi, come avrebbero forse preferito gli intransigenti commentatori. Giuseppe Penone, in linea con una ricerca artistica rigorosa e lunga tutta una vita, ha preferito optare per l'essenzialità di un albero che aspira al cielo e che si protende con i suoi rami verso una dimensione spirituale. Lo stesso autore ha infatti commentato, Abete in Piazza della Signoria indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale. Una sintesi che non ha evidentemente incontrato l'intesa del pubblico, il quale avrà occasione per conoscere più da vicino questo grande artista nella mostra delle Gallerie degli Uffizi, in programma per la prossima estate».

Un'opera difficile. La conosco bene io, che ne ho una simile, a collegare efficacemente i tre piani di scale, nel Mart di Mario Botta a Rovereto. Lì forma e struttura hanno una loro singolare armonia, estetica e funzionale. A Firenze lo spazio urbanistico, popolato di architetture e sculture, la respinge, per l'evidente impertinenza. Piacerà agli intellettuali, costretti a contraddire il popolo in nome di vieti riconoscimenti alla fama del «grande artista» e alla prodigiosa legittimazione delle avanguardie, nei loro, spesso incomprensibili al popolo, paradossi.

Accadde già, poco tempo fa, con il povero Nardella, sempre pesce in barile, costretto ad assentire, più per convenienza che per convinzione, ma senza il perentorio Schmidt, che ha entusiasmo e idee chiare, e concretezza (ma questa volta si è dimenticato il popolo), con la informe scultura, come una gigantesca cacata (e come tale perfettamente intesa dal popolo) di Urs Fischer, promossa dall'abile Fabrizio Moretti e dal modista Francesco Bonami, deliberatamente ciechi, in una sublime malafede mascherata di improbabili esegesi. Anche in quel caso io giocavo in un'altra squadra, e in un'altra piazza, con la Maestà sofferente di Gaetano Pesce, anch'essa controversa e discussa, ma per ragioni di contenuto, rivendicate dalle femministe.

Ora non loro, ma il popolo parla. Grida. Insorge. E a Firenze la polemica è solo estetica, pura, non di genere, anche se allo stesso Penone risulterebbe assai difficile spiegare la relazione tra una propria stanca e povera idea e il Paradiso di Dante. Volendola cercare potremmo trovarla anche nelle sculture di Botero, invise agli intellettuali prevenuti. Il popolo sembra invece prevenuto nei confronti degli alberi secchi nei quali non sente risuonare la lingua di Dante, «del bel paese là dove 'l sì suona»; e protesta.

È toccato anche, con altre ragioni, a Ferrara per la Maestà sofferente di Gaetano Pesce, il cui contenuto era sgradito, come fu a Milano, a un piccolo gruppo di femministe cui l'artista ha elegantemente risposto: «Avevo 28 anni quando diedi forma ai miei pensieri sulla Donna con un oggetto-poltrona. Non lo feci con dei mezzi tradizionali come uno scritto, un articolo, una conferenza, una pittura, o altra espressione artistica prevedibile. Decisi di parlare del grave problema sociale che affligge metà della popolazione del mondo con un oggetto utile che proposi a un'illuminata industria italiana. La produzione e la vendita cominciò 51 anni fa e così il messaggio politico che questo oggetto veicolava iniziò a esprimersi nelle case del mondo: un corpo di donna legato da una catena a una palla. L'immagine del prigioniero che trascina una sfera metallica attaccata al suo piede e che ne impedisce la libertà e minaccia la sua esistenza. In realtà già da allora pensavo che il nostro tempo possiede caratteristiche femminili. Esso è liquido come i suoi valori instabili e come la pluralità della natura femminile in contrapposto alla rigidità del comportamento maschile. Anni fa affermavo in un manifesto che la crisi del mondo che circola da tempo è dovuta alla stanchezza dell'uomo e che solo l'impiego della donna nella gestione del mondo potrà sanare. Purtroppo, dopo 51 anni, la donna è ancora perseguitata in molti paesi. In altri è trattata come essere inferiore e, salvo qualche esempio, non le è riconosciuta la libertà di cui dispone l'uomo. Purtroppo le frecce che riceve ogni giorno non sono spilli, ma martelli, lame, acidi, pietre, o proiettili per farle grave violenza. Tutto questo non solo in paesi del terzo mondo, ma anche in quelli più evoluti e, con grande dispiacere, anche in Italia. Quanto precede sono le ragioni che hanno creato il mio lavoro di mezzo secolo fa e della moltiplicata dimensione esposta a Milano due anni fa e ora a Ferrara per volere dell'intelligenza di Vittorio Sgarbi e della Amministrazione locale. Ho sentito che non tutti sono d'accordo con la mia rappresentazione del grave problema. Quel che conta sta nel parlarne, non solo per criticarmi, ma per agire in ogni possibile modo per evitare una delle più gravi vergogne del mondo contemporaneo».

Il difetto o l'insufficienza del ripetitivo Penone, che non ha pensato a un'opera per Firenze, ma ha mandato la sua idea guida, indifferente al luogo e al tema, nel contesto urbano più culturalmemte qualificato d'Italia, riproponendo un pensiero povero vagamente ecologico, è più difficile da spiegare. Su questo si interrogano i fiorentini: perché lì? E in che modo l'Abete è rappresentativo di Dante? Come ha fatto Pesce, attendiamo che lo chiarisca anche Penone, al di là della legittimazione di Eike Schmidt, per rispetto di Firenze e di Dante. Che ci dica la sua ispirazione fiorentina e dantesca. Potrà non piacerci, ma lo ascolteremo. Un altro senso unico, dopo la lettura obbligatoria di Benigni.

Intanto, per rispetto della città e del popolo io, a Ferrara, la Maestà sofferente di Pesce l'ho voluta in periferia, davanti alla Fiera, non in piazza del Duomo, ma fra gli alberi. E lì anche l'Abete di Penone, con umiltà, avrebbe senso, nel suo giusto spazio. La polemica di Firenze ricorda quella contro gli alberi di Natale striminziti, o di forme improprie o inadeguate alle festività, nelle piazze d'Italia: dallo Spelacchio della Raggi al Rinsecchito di Nardella.

Comunque, auguri.

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