L’apologia di Arsenio Lupin

«Il delitto coronato da successo prende il nome di virtù». Aveva la vista lunga Seneca il Giovane (4 aC-65 dC) e di certo non era a conoscenza dell'impresa compiuta a Milano dalla banda del buco ai danni della gioielleria Damiani. Ma a leggere i giornali o ad ascoltare i vari tg non si può non dare ragione al filosofo. Da articoli e commenti emerge una (molto) malcelata ammirazione per i banditi di corso Magenta. Non hanno usato violenza, erano preparati, freddi, professionali... E torna nelle cronache milanesi il «tormentone» dei tempi romantici delle tute blu di via Osoppo, del Ciappina e, inevitabili, «I soliti ignoti» con Totò e Gassman. «Come non preferire – scrive ad esempio l'amico Alberto Berticelli sul Corriere della Sera – i professionisti del crimine a quei brutali e scalcagnati rapinatori che picchiano, aggrediscono o usano le armi senza motivo?».

Domanda retorica. Dovessi essere bloccato da un rapinatore preferirei consegnare il mio portafoglio a uno che, per convincermi, usi il ragionamento piuttosto che una mazza da baseball da spaccarmi sulle ginocchia. In entrambi i casi sarei comunque vittima di un rapinatore, cioè di un delinquente.

Ci siamo talmente abituati a convivere con malfattori e banditi d'ogni tipo che ormai, automaticamente, di fronte a un delitto operiamo dei distinguo: il delinquente buono, il delinquente bravo, il delinquente cattivo, il delinquente carogna, l'albanese. E non ci rendiamo conto che questo è il primo passo verso l'assuefazione al crimine. E anche in questo caso, le dosi diventano sempre più massicce.

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